Nel suo saggio «Arbeit und instrumentales Handeln. Kategoriale Problemen einer kritischen Gesellschaftstheorie», Lei prende le mosse dalla concezione monistica del lavoro sociale elaborata da Marx, comprendente in sé Bildung, espressione di sé, riconoscimento e aspetto normativo-emancipativo. Partendo da questa base, Lei critica la dicotomizzazione operata da Habermas tra agire strumentale e agire comunicativo, proponendo l’inserimento, all’interno della sfera dell’agire strumentale, di un concetto normativo di attività lavorativa non deformata: tale concetto dovrebbe dunque permettere l’istituzione di relazioni riconoscitive di reciprocità e simmetricità nel mercato del lavoro, e rispondere alle esigenze creative ed interazionali di ogni lavoratore. Tuttavia, nello stesso saggio, Lei sottolinea l’efficacia categoriale dell’impostazione dualistica habermasiana. Ritiene ancora sostenibile tale distinzione, a seguito dell’inserimento di un principio normativo all’interno della sfera dell’agire strumentale?
È un problema complesso, non ho ancora riflettuto in modo approfondito sulla soluzione che fornirei attualmente. Credo, però, che ad oggi proporrei una distinzione totalmente differente. Nel complesso, direi di non ritenere più sostenibile l’inserimento del concetto di agire strumentale all’interno della mia teoria: nella mia elaborazione della terza sfera del riconoscimento parlo infatti propriamente di lavoro, e non di agire strumentale. Nel mio saggio del 1980, Arbeit und instrumentales Handeln. Kategoriale Problemen einer kritischen Gesellschaftstheorie, caratterizzo il lavoro come un’azione legata per sua natura ad esigenze normative. Ma non sono sicuro che anche adesso lo rappresenterei così. Nel 2003, nel libro Redistribuzione o riconoscimento?, ho infatti cercato di elaborare una diversa concezione della sfera produttiva: non sostengo più che il lavoro è in sé normativo, ma dimostro che è l’organizzazione stessa del lavoro ad essere normativa. Secondo questo punto di vista, si può dire che non condivido la distinzione habermasiana tra System e Lebenswelt, che trovo altamente problematica: già nel 1985, in Critica del potere, ho polemizzato apertamente con la dicotomizzazione habermasiana. Credo che oggi baserei il concetto di lavoro, e la mia teoria dell’azione in generale, molto più fortemente sul concetto di riconoscimento, descrivendo l’attività produttiva umana, e l’organizzazione stessa del lavoro, come una forma di Anerkennung reciproca. Secondo questa visione, la distinzione tra lavoro e interazione, o tra agire comunicativo e strumentale, perde completamente il proprio carattere di necessità. Ho preso progressivamente distanza dalla caratterizzazione habermasiana del lavoro come agire strumentale perché potenzialmente pericolosa: se adottata, la Reinigung habermasiana del concetto del lavoro renderebbe sempre più difficile la possibilità di una caratterizzazione emancipativa della sfera produttiva umana.
Ciò che ho ripreso da Habermas è lo spostamento del focus della teoria marxiana dal paradigma del lavoro a quello dell’interazione. Trovo l’impostazione habermasiana più corretta rispetto a quella marxiana. Rispetto ad Habermas, però, io propongo di sostituire il paradigma del lavoro con quello del riconoscimento: il concetto chiave della mia teoria è l’Anerkennung, non più l’interazione. Ma la distinzione habermasiana è stata in un primo momento importante perché ha reso chiaro il fatto che l’emancipazione non sorge direttamente dall’attività lavorativa, ma dalle modalità in cui il lavoro viene organizzato. Anche Marx opera una distinzione tra rapporti di produzione e forze produttive: tuttavia, per me il concetto decisivo da introdurre è quello dei rapporti di riconoscimento, entro cui le forze produttive giocano un preciso ruolo. Il concetto di rapporto di riconoscimento rende possibile ogni volta organizzare diversamente l’Anerkennung del lavoro all’interno delle dinamiche delle forze produttive. Posso quindi dire di aver cambiato l’intera architettonica della teoria sociale habermasiana. La divisione habermasiana tra lavoro e interazione mi ha, del resto, sempre lasciato insoddisfatto.
Honneth, Axel."UNA TEORIA NORMATIVA DEL LAVORO Intervista ad Axel Honneth". PólemosV. 2-3. (2010): 299-304https://www.rivistapolemos.it/una-teoria-normativa-del-lavoro-intervista-ad-axel-honneth/?lang=it
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Honneth, A.(2010). "UNA TEORIA NORMATIVA DEL LAVORO Intervista ad Axel Honneth". PólemosV. (2-3). 299-304https://www.rivistapolemos.it/una-teoria-normativa-del-lavoro-intervista-ad-axel-honneth/?lang=it
Chicago
Honneth, Axel.2010. "UNA TEORIA NORMATIVA DEL LAVORO Intervista ad Axel Honneth". PólemosV (2-3). Donzelli Editore: 299-304. https://www.rivistapolemos.it/una-teoria-normativa-del-lavoro-intervista-ad-axel-honneth/?lang=it
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TY - JOUR
A1 - Honneth, Axel
PY - 2010
TI - UNA TEORIA NORMATIVA DEL LAVORO Intervista ad Axel Honneth
JO - Plemos
SN - 8890413611/2281-9517
AB - Nel suo saggio «Arbeit und instrumentales Handeln. Kategoriale Problemen einer kritischen Gesellschaftstheorie», Lei prende le mosse dalla concezione monistica del lavoro sociale elaborata da Marx, comprendente in sé Bildung, espressione di sé, riconoscimento e aspetto normativo-emancipativo. Partendo da questa base, Lei critica la dicotomizzazione operata da Habermas tra agire strumentale e agire comunicativo, proponendo l’inserimento, all’interno della sfera dell’agire strumentale, di un concetto normativo di attività lavorativa non deformata: tale concetto dovrebbe dunque permettere l’istituzione di relazioni riconoscitive di reciprocità e simmetricità nel mercato del lavoro, e rispondere alle esigenze creative ed interazionali di ogni lavoratore. Tuttavia, nello stesso saggio, Lei sottolinea l’efficacia categoriale dell’impostazione dualistica habermasiana. Ritiene ancora sostenibile tale distinzione, a seguito dell’inserimento di un principio normativo all’interno della sfera dell’agire strumentale?
È un problema complesso, non ho ancora riflettuto in modo approfondito sulla soluzione che fornirei attualmente. Credo, però, che ad oggi proporrei una distinzione totalmente differente. Nel complesso, direi di non ritenere più sostenibile l’inserimento del concetto di agire strumentale all’interno della mia teoria: nella mia elaborazione della terza sfera del riconoscimento parlo infatti propriamente di lavoro, e non di agire strumentale. Nel mio saggio del 1980, Arbeit und instrumentales Handeln. Kategoriale Problemen einer kritischen Gesellschaftstheorie, caratterizzo il lavoro come un’azione legata per sua natura ad esigenze normative. Ma non sono sicuro che anche adesso lo rappresenterei così. Nel 2003, nel libro Redistribuzione o riconoscimento?, ho infatti cercato di elaborare una diversa concezione della sfera produttiva: non sostengo più che il lavoro è in sé normativo, ma dimostro che è l’organizzazione stessa del lavoro ad essere normativa. Secondo questo punto di vista, si può dire che non condivido la distinzione habermasiana tra System e Lebenswelt, che trovo altamente problematica: già nel 1985, in Critica del potere, ho polemizzato apertamente con la dicotomizzazione habermasiana. Credo che oggi baserei il concetto di lavoro, e la mia teoria dell’azione in generale, molto più fortemente sul concetto di riconoscimento, descrivendo l’attività produttiva umana, e l’organizzazione stessa del lavoro, come una forma di Anerkennung reciproca. Secondo questa visione, la distinzione tra lavoro e interazione, o tra agire comunicativo e strumentale, perde completamente il proprio carattere di necessità. Ho preso progressivamente distanza dalla caratterizzazione habermasiana del lavoro come agire strumentale perché potenzialmente pericolosa: se adottata, la Reinigung habermasiana del concetto del lavoro renderebbe sempre più difficile la possibilità di una caratterizzazione emancipativa della sfera produttiva umana.
Ciò che ho ripreso da Habermas è lo spostamento del focus della teoria marxiana dal paradigma del lavoro a quello dell’interazione. Trovo l’impostazione habermasiana più corretta rispetto a quella marxiana. Rispetto ad Habermas, però, io propongo di sostituire il paradigma del lavoro con quello del riconoscimento: il concetto chiave della mia teoria è l’Anerkennung, non più l’interazione. Ma la distinzione habermasiana è stata in un primo momento importante perché ha reso chiaro il fatto che l’emancipazione non sorge direttamente dall’attività lavorativa, ma dalle modalità in cui il lavoro viene organizzato. Anche Marx opera una distinzione tra rapporti di produzione e forze produttive: tuttavia, per me il concetto decisivo da introdurre è quello dei rapporti di riconoscimento, entro cui le forze produttive giocano un preciso ruolo. Il concetto di rapporto di riconoscimento rende possibile ogni volta organizzare diversamente l’Anerkennung del lavoro all’interno delle dinamiche delle forze produttive. Posso quindi dire di aver cambiato l’intera architettonica della teoria sociale habermasiana. La divisione habermasiana tra lavoro e interazione mi ha, del resto, sempre lasciato insoddisfatto.
SE - 2-3/2010
DA - 2010
KW - Marx KW - lavoro KW - Habermas KW - Axel Honneth
UR - https://www.rivistapolemos.it/una-teoria-normativa-del-lavoro-intervista-ad-axel-honneth/?lang=it
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PB - Donzelli Editore
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È un problema complesso, non ho ancora riflettuto in modo approfondito sulla soluzione che fornirei attualmente. Credo, però, che ad oggi proporrei una distinzione totalmente differente. Nel complesso, direi di non ritenere più sostenibile l’inserimento del concetto di agire strumentale all’interno della mia teoria: nella mia elaborazione della terza sfera del riconoscimento parlo infatti propriamente di lavoro, e non di agire strumentale. Nel mio saggio del 1980, Arbeit und instrumentales Handeln. Kategoriale Problemen einer kritischen Gesellschaftstheorie, caratterizzo il lavoro come un’azione legata per sua natura ad esigenze normative. Ma non sono sicuro che anche adesso lo rappresenterei così. Nel 2003, nel libro Redistribuzione o riconoscimento?, ho infatti cercato di elaborare una diversa concezione della sfera produttiva: non sostengo più che il lavoro è in sé normativo, ma dimostro che è l’organizzazione stessa del lavoro ad essere normativa. Secondo questo punto di vista, si può dire che non condivido la distinzione habermasiana tra System e Lebenswelt, che trovo altamente problematica: già nel 1985, in Critica del potere, ho polemizzato apertamente con la dicotomizzazione habermasiana. Credo che oggi baserei il concetto di lavoro, e la mia teoria dell’azione in generale, molto più fortemente sul concetto di riconoscimento, descrivendo l’attività produttiva umana, e l’organizzazione stessa del lavoro, come una forma di Anerkennung reciproca. Secondo questa visione, la distinzione tra lavoro e interazione, o tra agire comunicativo e strumentale, perde completamente il proprio carattere di necessità. Ho preso progressivamente distanza dalla caratterizzazione habermasiana del lavoro come agire strumentale perché potenzialmente pericolosa: se adottata, la Reinigung habermasiana del concetto del lavoro renderebbe sempre più difficile la possibilità di una caratterizzazione emancipativa della sfera produttiva umana.
Ciò che ho ripreso da Habermas è lo spostamento del focus della teoria marxiana dal paradigma del lavoro a quello dell’interazione. Trovo l’impostazione habermasiana più corretta rispetto a quella marxiana. Rispetto ad Habermas, però, io propongo di sostituire il paradigma del lavoro con quello del riconoscimento: il concetto chiave della mia teoria è l’Anerkennung, non più l’interazione. Ma la distinzione habermasiana è stata in un primo momento importante perché ha reso chiaro il fatto che l’emancipazione non sorge direttamente dall’attività lavorativa, ma dalle modalità in cui il lavoro viene organizzato. Anche Marx opera una distinzione tra rapporti di produzione e forze produttive: tuttavia, per me il concetto decisivo da introdurre è quello dei rapporti di riconoscimento, entro cui le forze produttive giocano un preciso ruolo. Il concetto di rapporto di riconoscimento rende possibile ogni volta organizzare diversamente l’Anerkennung del lavoro all’interno delle dinamiche delle forze produttive. Posso quindi dire di aver cambiato l’intera architettonica della teoria sociale habermasiana. La divisione habermasiana tra lavoro e interazione mi ha, del resto, sempre lasciato insoddisfatto.
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