Cosa intendiamo per lavoro? Si definisce ‘lavoro’ un’attività che viene espletata per la soddisfazione diretta o indiretta dei bisogni individuali (propri e altrui): un fare dal quale sorge un soddisfare. Ma in cosa consistono questo fare e questo soddisfare e che significato e quale valenza hanno per noi? È chiaro che la nozione del lavoro è variata a seconda delle epoche e delle civiltà1. Ed è altrettanto chiaro che essa sia destinata a variare anche in dipendenza degli attuali mutamenti storici, in forme probabilmente inedite e forse inaudite. Se nell’antichità, come afferma Nietzsche, il lavoro era considerata un’attività riservata ai poveri e agli schiavi tanto che «un uomo di buoni natali nascondeva il suo lavoro quando era costretto a lavorare» e «lo schiavo lavorava oppresso dal sentimento di fare qualcosa di spregevole», nell’età moderna si è fatta strada una concezione pressoché opposta, governata dal «meglio fare una qualsiasi cosa che nulla», dove «non si ha più tempo né energia per i cerimoniali», giacché «la vita a caccia di guadagno costringe continuamente a prodigarsi fino all’esaurimento in un costante fingere, abbindolare o prevenire»2 Tale rovesciamento, già per Constant, doveva essere decisivo nel differenziare il senso stesso della libertà che avevano gli antichi da quella dei moderni: con l’abolizione della schiavitù, infatti, era stato virtualmente abolito anche il tempo libero da dedicare alla vita politica e tanto meno alla vita contemplativa; di contro, il commercio, a differenza della guerra, non lasciava intervalli di inattività: per cui, una volta rotto il binomio otium/bellum, gli individui, afferma Constant, preferivano ora dedicarsi alle speculazioni economiche più che alla discussione politica, il che non faceva però che alimentare in via esponenziale il senso individualista dell’individuo stesso e la forma privata dei suoi desideri3. Se dunque, nella Grecia classica, si riteneva, a partire da Omero, che la peggiore delle condizioni umane fosse quella del thetes4 , dell’operaio agricolo costretto a vendere le proprie braccia5 , e si rimproverava ai Sofisti di farsi pagare per le loro lezioni, assumendo, in generale, come sostenne chiaramente Aristotele, che non si dovesse riconoscere il diritto di cittadinanza a coloro che avevano bisogno di lavorare per vivere (e ciò nella misura in cui i lavori retribuiti impedirebbero allo spirito ogni elevatezza)6, nella realtà sociale moderna il lavoro, pur conservando il doppio senso di fatica (molestia) e di prestazione (opus), di parto doloroso e di creazione nuova, è assurto a concetto politico autonomo e, ancor più, ha acquisito dignità, valore, valenza giuridica, fino a divenire il perno fondante della vita associata. Oltre all’abolizione, almeno formale, della schiavitù, il passaggio storico dovette avvenire in quel preciso salto di qualità dell’accumulazione dei capitali rappresentato dall’avvento delle banche e, contemporaneamente, nel passaggio dalla bottega artigiana all’industria, lungo il quale la schiavitù, divenuta servitù della gleba, si preparava a trasformarsi nel ben più spaventevole proletariato urbano7 e dall’accumulazione si passava alla concentrazione del capitale8 . Qui, il lavoro viene rielaborato nella nozione di lavoro socialmente necessario, servente alla produzione industriale, nello stesso tempo diventa oggetto di studio del diritto, se è vero che, proprio con l’impoverimento del ceto artigiano e il lento affermarsi dell’industria, nasce l’archetipo del contratto di lavoro9. Nel lungo solco di questo passaggio, il lavoro è stato variamente definito come attività con la quale si ricava, attraverso un’opera di trasformazione che è quella dell’endostruere e quindi dell’industria, una qualche utilità da ciò che è originariamente inutile (Locke)10, o come la misura reale e universale del valore di scambio di tutte le merci (Smith)11 o, ancora, come un’opera di mediazione specifica: la mediazione tra bisogni e il loro appagamento, la quale fa dipendere gli uomini gli uni dagli altri (Hegel)12. Al di là dei diversi sviluppi teorici, si è riconosciuto che il lavoro è una attività di trasformazione, una Formierung, utile, valida e valevole, la quale produce valore e dal valore discende in una particolare, forse perversa, circolarità economica, e che è capace, per Hegel, di coagulare la scissione dialettica del particolare e dell’universale all’interno della società civile, facendosi dunque parte integrante del sistema etico: il lavoro, come teorizzò ancora Hegel, è quell’elemento capace di conferire «al mezzo il valore e la sua adeguatezza al fine»13, in un fitto scambio di vicendevoli bisogni. E proprio perché i bisogni e il loro appagamento sono connessi al lavoro in un sistema di scambio e di valorizzazione, ecco che emerge un’altra caratteristica imprescindibile dell’essenza del lavoro: la divisione. Il lavoro è, per essenza, diviso: diviso nei diversi mestieri, mansioni, occupazioni, competenze, pratiche e professioni, in dipendenza dei diversi bisogni che è destinato ad appagare. La divisione del lavoro, invero, non è affatto un fenomeno moderno: essa infatti affonda le sue radici nel baratto, nella misura in cui, per riprendere un esempio di Marx, chi fabbricava archi e frecce barattava il suo prodotto con chi cacciava animali selvatici14 . È lo scambio stesso a produrre e legittimare – a valorizzare – la divisione del lavoro. Da tale assunto, Marx, sin dagli inizi, aveva ricavato le legge generale secondo cui «la differenza delle doti naturali tra gli individui non è la causa ma l’effetto della divisione del lavoro»15. È il lavoro, in altre parole, nel suo diversificarsi, che va a diversificare le inclinazioni naturali. Tuttavia è solo nell’era moderna che tale concetto assume importanza decisiva. Con l’emergere dell’economia capitalista, infatti, è il capitale stesso che va a stimolare gli scambi e che, dunque, alimentando il mercato, va a determinare la divisione del lavoro16. Anche per Adam Smith era chiaro come la divisione del lavoro, essendo quindi destinata sempre ad adeguarsi ai criteri della domanda, dipendesse chiaramente dall’accumulazione del capitale17. Il destino del lavoro appare dunque tracciato: l’accumulazione del capitale, che è origine e fine del sistema economico capitalista, smuove il volume degli scambi facendosi domanda economica; il sempre più elevato volume degli scambi produce una sempre più elevata divisione del lavoro; il lavoro, dividendosi, provoca scissioni nella disposizione naturale ovvero nell’hexis, nella inclinazione qualitativa degli uomini, la quale è chiamata a diversificarsi sempre di più. Poggiando sulle stesse analisi di Smith, di Destutt De Tracy e di Mill, Marx conclude dunque che in una fase più avanzata della società capitalista, con la crescente diversificazione dei prodotti, dei bisogni e delle esigenze sociali, ogni uomo è destinato a vivere di scambi e a divenire un commerciante, giacché l’accumulazione dei capitali cresce con la divisione del lavoro e viceversa. Tanto lo scambio dipende dalla divisione del lavoro, tanto la capacità di dividere il lavoro diventa la capacità stessa del mercato di estendersi e dell’accumulazione dei capitali di accrescersi. In questo senso, il progresso della società capitalista non doveva essere incoraggiato, per Marx, se non per farlo esplodere nella sua intima contraddizione, quella di un cattivo infinito: l’evoluzione non è altro che la preparazione della rivoluzione. Durkheim vide dell’altro nella divisione del lavoro: non solo un fenomeno legato al funzionamento economico, quanto un processo di divisione più radicale, destinato a coinvolgere l’intera società umana18. La divisione del lavoro ha un’influenza crescente, avverte Durkheim, «nelle più diverse sfere sociali. Le funzioni politiche, amministrative, giudiziarie, si specializzano progressivamente»19. Siamo molto lontani dall’epoca in cui la filosofia era l’unica scienza; essa si è frantumata in una moltitudine di discipline specialistiche, ciascuna delle quali ha il proprio oggetto, il proprio metodo, il proprio spirito; il che a sua volta era stato già denunciato da Husserl a partire dal breve scritto Sulla fallita realizzazione del telos della umanità europea del 1922-23 e poi con La crisi delle scienze europee. Niente affatto lontane sembrano le preoccupazioni successive di Lukács o di Adorno. Non solo, dunque, la divisione del lavoro sarebbe all’origine delle differenti doti naturali che si sono sviluppate nell’uomo, ma anche della frammentazione o specializzazione del pensiero, delle scienze, delle discipline. È chiaro, infatti, che la divisione del lavoro è un fenomeno che rappresenta una frattura nel fare: una frattura profonda, destinata a moltiplicarsi al ritmo stesso in cui il fare ingrassa dilatandosi in sempre nuove forme, trascinando così i saperi in una incessante privatizzazione del proprio ambito. Il fatto però è che, proprio per il carattere negativo dell’infinito, alla divisione del lavoro non corrisponde in realtà una maggiore varietà di elementi, ma solo un maggior conflitto latente o manifesto di ciò che è stato diviso. Annota ancora Durkheim: «[…] se il lavoro si divide sempre più a misura che le società diventano più voluminose e più dense, ciò non accade perché le circostanze esteriori siano più varie, bensì perchè la lotta alla vita è più evidente»20. Del resto Marx aveva già recuperato l’elemento negativo del lavoro e, nella nota distinzione tra lavoro astratto, incorporato nelle merci, e lavoro concreto, misurato dal tempo quantitativo (e qualitativo) necessario a produrle, tra valore e plusvalore21, aveva ricavato l’ulteriore connotazione del lavoro come alienazione e come sfruttamento. In questo senso è possibile dare una prima risposta, in chiave moderna, alla domanda su che cosa è il lavoro: il lavoro è quel fare, oggetto di scambio, che produce valore ed è in sé un valore e che, nel complessivo e progressivo svolgersi degli scambi, è destinato a dividersi in porzioni sempre più particolari, costringendo le disposizioni umane ad adattarsi di conseguenza, provocando conflitti interni ed esteriori all’individuo, innescando cioè un’evidente lotta per la vita che ha l’alienazione e lo sfruttamento come suoi corollari dialettici. Tuttavia, una prima contraddizione teorica appare evidente. Il lavoro da una parte è diviso in una miriade di differenti lavori per nulla omogenei, sempre più specializzati e parcellizzati; dall’altra, esso viene sempre più presentato come “insieme”, come categoria unitaria e indistinta, e ciò perché è la proprietà stessa del capitale ad essere, come polarità concettuale dominante, unitaria e indistinta. È interesse primario del capitalista tenere il lavoro, per quanto diviso, dentro un insieme concettuale unitario che, al pari della moneta, possa essere massimamente fungibile22. Il capitalista tratta di fatto il lavoro come lavoro differenziato esattamente come sono differenziati i beni e i servizi, ma mantiene concettualmente unitaria ed omogenea la complessità dell’insieme. Per correlato inverso, una divisione indefinita delle funzioni non poteva accadere se non sullo sfondo di una unificazione ideologica complessiva, proprio nel senso di una religione laica, quella dell’economia capitalista appunto che è un’economia politica e, massimamente, una politica sul lavoro. L’accelerazione, specialmente a partire dall’ultimo trentennio del secolo scorso, anche sulla scorta delle applicate teorie neoliberiste, guidate dalla fede assoluta nella mano invisibile e provvidenziale del mercato, è stata tale da mutare il senso stesso di questa divisione e da modificare ancora il senso di ciò che intendiamo per lavoro.
Nota è la maledizione del lavoro contenuta nella Bibbia, Genesi III 17-19, secondo la quale l’uomo è costretto a lavorare come conseguenza del peccato e della punizione, la quale ad esempio secondo Weber, avrebbe caratterizzato il disprezzo, ribadito nel Nuovo Testamento, del cristianesimo per il lavoro: sul punto cfr. M. Weber, Economia e Società. Teoria delle categorie sociologiche, trad. it. di T. Bogiatti, F. Casabianca, P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1961, p. 790 ss. ↩
F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. it. di G. Vattimo, Einaudi, Torino 1979, § 329, pp. 184- 185. ↩
Cfr. B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, in Id., Antologia degli scritti politici, trad. it. di A. Zanfarino, Il Mulino, Bologna 1962, p. 36 ss. e p. 42 ss. ↩
A differenza del contadino che ricavava direttamente dalla terra i bisogni per sé e per la famiglia, sviluppando altresì virtù derivate come il coraggio di difendere le proprie terre e dunque la propria città e la disciplina nel comandare (cfr. Senofonte, Economico, 5, 4-17, cit. in R. Flacelière, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, trad. it. di M.G. Meriggi, Rizzoli, Milano 1998, p. 163), l’operaio agricolo era, infatti, salariato e retribuito, vendeva, in altre parole, il frutto del suo lavoro che, sin dal principio, non gli apparteneva. ↩
Cfr. Aristotele, Politica, III, 3, 2-4 e V, 2, 1-2. ↩
Bloch commenta in questo modo il passaggio traumatico dalla schiavitù al proletariato: «se è spesso problematico il progresso nel bene e nella felicità, non è così per quello dello sfruttamento: questo è diventato sempre più secco e impudente. Lo schiavo greco era trattato meglio del servo della gleba e questi a sua volta meglio del salariato moderno. Poiché lo schiavo quanto meno era la bestia del suo padrone, pertanto era nutrito e aveva una stalla. Il servo della gleba invece doveva provvedere a se stesso, nella misura in cui gliene restava il tempo e il proprietario del villaccio gli lasciava una ciotola (…). Sino a che non cominciò la libertà di circolazione, l’uomo come libero possessore della forza lavoro (…). Sopraggiunsero allora le benedizioni della prima epoca industriale descritte da Engels; dopo lo schiavo, il servo della gleba e l’apprendista artigiano inghiottito un po’ per volta, apparve il proletario. Se sino ad allora la condizione della classe lavoratrice era stata miserabile, ora divenne infernale; il punto da cui partì il proletariato intorno al 1800 era quello dei galeotti. Spesso venivano già costretti al lavoro bambini di quattro anni; nelle oscure gallerie delle miniere o nelle umide, afose, puzzolenti fabbriche di cotone; l’età normale per lavorare erano otto o nove anni. Il tempo di lavoro per i bambini durava da sei a dieci ore, dai tredici ai diciotto anni aumentava a dodici ore, donne e uomini se ne stavano alla macchina per i loro sfruttatori dalle cinque del mattino alle otto di sera, spesso più a lungo» (E. Bloch, Il principio speranza, trad. it. di E. De Angelis e T. Cavallo, Garzanti, Milano 2005, pp. 1027-1028. ↩
La concentrazione, in questo senso, come contribuisce a mettere in evidenza Tronti, a differenza dell’accumulazione originaria (che da avvio al plusvalore realizzato nella produzione agricola), è il presupposto dell’aumento della produttività e dunque del lavoro su scala industriale: cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Derive e Approdi, Roma 2006, p. 174 ss. ↩
Cfr. W. Sombart, Il capitalismo moderno, trad. it. di A. Cavalli, Utet, Torino 1967. ↩
Cfr. J. Locke, Due Trattati sul governo e altri scritti politici, trad. it. di L. Pareyson, Utet, Torino 1982, II, V. ↩
Cfr. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, trad. it. di A. e T. Biagiotti, Utet, Torino 2007, V. ↩
Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. di V. Cicero, Rizzoli, Milano 1996, §§ 196-198. ↩
Cfr. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1968, p. 144. ↩
Ibid. Altrove Marx, specifica che la divisione del lavoro nasce e si specifica anche come divisione del lavoro nell’atto sessuale e come la divisione del lavoro che si produce spontaneamente o “naturalmente” in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del bisogno, del caso ecc. Ma la divisione del lavoro diventa una divisione reale, avverte Marx, solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale. Cfr. K. Marx, L’ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 2000, I. ↩
Cfr. K. Marx, Il capitale, trad. it. di R. Meyer, Newton Compton, Roma 2008, I, IV, 12. ↩
Cfr. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, cit., p. 145 ss. ↩
Cfr. E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, trad. it. di F. Airoldi Namer, Ed. La Comunità, Milano 1972, p. 53 ss. ↩
Cfr. K. Marx, Il Capitale, cit., I, 1,1 e I, 3, 5. Se, come è noto, per Marx, il processo lavorativo produce valori d’uso delle merci, la sostanza del valore, il processo di valorizzazione ne produce il plusvalore, la differenza, mediante la mediazione della moneta e del profitto, tra le diverse grandezze di valore. ↩
Sul punto ad es. cfr. la critica di A. Gramsci, in Punti di meditazione per lo studio della economia politica, in Id., Quaderni dal carcere, Quaderno 10, II, §23. ↩
Fiorini, Pier Paolo."TANTO LAVORO PER NULLA Brevi linee di filosofia politica sul fenomeno del lavoro". PólemosV. 2-3. (2010): 19-36https://www.rivistapolemos.it/tanto-lavoro-per-nulla-brevi-linee-di-filosofia-politica-sul-fenomeno-del-lavoro/?lang=it
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Fiorini, P.(2010). "TANTO LAVORO PER NULLA Brevi linee di filosofia politica sul fenomeno del lavoro". PólemosV. (2-3). 19-36https://www.rivistapolemos.it/tanto-lavoro-per-nulla-brevi-linee-di-filosofia-politica-sul-fenomeno-del-lavoro/?lang=it
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Fiorini, Pier Paolo.2010. "TANTO LAVORO PER NULLA Brevi linee di filosofia politica sul fenomeno del lavoro". PólemosV (2-3). Donzelli Editore: 19-36. https://www.rivistapolemos.it/tanto-lavoro-per-nulla-brevi-linee-di-filosofia-politica-sul-fenomeno-del-lavoro/?lang=it
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A1 - Fiorini, Pier Paolo
PY - 2010
TI - TANTO LAVORO PER NULLA Brevi linee di filosofia politica sul fenomeno del lavoro
JO - Plemos
SN - 8890413611/2281-9517
AB - Cosa intendiamo per lavoro? Si definisce ‘lavoro’ un’attività che viene espletata per la soddisfazione diretta o indiretta dei bisogni individuali (propri e altrui): un fare dal quale sorge un soddisfare. Ma in cosa consistono questo fare e questo soddisfare e che significato e quale valenza hanno per noi? È chiaro che la nozione del lavoro è variata a seconda delle epoche e delle civiltà[1. Nota è la maledizione del lavoro contenuta nella Bibbia, Genesi III 17-19, secondo la quale l’uomo è costretto a lavorare come conseguenza del peccato e della punizione, la quale ad esempio secondo Weber, avrebbe caratterizzato il disprezzo, ribadito nel Nuovo Testamento, del cristianesimo per il lavoro: sul punto cfr. M. Weber, Economia e Società. Teoria delle categorie sociologiche, trad. it. di T. Bogiatti, F. Casabianca, P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1961, p. 790 ss.]. Ed è altrettanto chiaro che essa sia destinata a variare anche in dipendenza degli attuali mutamenti storici, in forme probabilmente inedite e forse inaudite. Se nell’antichità, come afferma Nietzsche, il lavoro era considerata un’attività riservata ai poveri e agli schiavi tanto che «un uomo di buoni natali nascondeva il suo lavoro quando era costretto a lavorare» e «lo schiavo lavorava oppresso dal sentimento di fare qualcosa di spregevole», nell’età moderna si è fatta strada una concezione pressoché opposta, governata dal «meglio fare una qualsiasi cosa che nulla», dove «non si ha più tempo né energia per i cerimoniali», giacché «la vita a caccia di guadagno costringe continuamente a prodigarsi fino all’esaurimento in un costante fingere, abbindolare o prevenire»[2. F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. it. di G. Vattimo, Einaudi, Torino 1979, § 329, pp. 184- 185.] Tale rovesciamento, già per Constant, doveva essere decisivo nel differenziare il senso stesso della libertà che avevano gli antichi da quella dei moderni: con l’abolizione della schiavitù, infatti, era stato virtualmente abolito anche il tempo libero da dedicare alla vita politica e tanto meno alla vita contemplativa; di contro, il commercio, a differenza della guerra, non lasciava intervalli di inattività: per cui, una volta rotto il binomio otium/bellum, gli individui, afferma Constant, preferivano ora dedicarsi alle speculazioni economiche più che alla discussione politica, il che non faceva però che alimentare in via esponenziale il senso individualista dell’individuo stesso e la forma privata dei suoi desideri[3. Cfr. B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, in Id., Antologia degli scritti politici, trad. it. di A. Zanfarino, Il Mulino, Bologna 1962, p. 36 ss. e p. 42 ss.]. Se dunque, nella Grecia classica, si riteneva, a partire da Omero, che la peggiore delle condizioni umane fosse quella del thetes[4. Cfr. Omero, Odissea, XI, vv. 487-491.] , dell’operaio agricolo costretto a vendere le proprie braccia[5. A differenza del contadino che ricavava direttamente dalla terra i bisogni per sé e per la famiglia, sviluppando altresì virtù derivate come il coraggio di difendere le proprie terre e dunque la propria città e la disciplina nel comandare (cfr. Senofonte, Economico, 5, 4-17, cit. in R. Flacelière, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, trad. it. di M.G. Meriggi, Rizzoli, Milano 1998, p. 163), l’operaio agricolo era, infatti, salariato e retribuito, vendeva, in altre parole, il frutto del suo lavoro che, sin dal principio, non gli apparteneva.] , e si rimproverava ai Sofisti di farsi pagare per le loro lezioni, assumendo, in generale, come sostenne chiaramente Aristotele, che non si dovesse riconoscere il diritto di cittadinanza a coloro che avevano bisogno di lavorare per vivere (e ciò nella misura in cui i lavori retribuiti impedirebbero allo spirito ogni elevatezza)[6. Cfr. Aristotele, Politica, III, 3, 2-4 e V, 2, 1-2.], nella realtà sociale moderna il lavoro, pur conservando il doppio senso di fatica (molestia) e di prestazione (opus), di parto doloroso e di creazione nuova, è assurto a concetto politico autonomo e, ancor più, ha acquisito dignità, valore, valenza giuridica, fino a divenire il perno fondante della vita associata. Oltre all’abolizione, almeno formale, della schiavitù, il passaggio storico dovette avvenire in quel preciso salto di qualità dell’accumulazione dei capitali rappresentato dall’avvento delle banche e, contemporaneamente, nel passaggio dalla bottega artigiana all’industria, lungo il quale la schiavitù, divenuta servitù della gleba, si preparava a trasformarsi nel ben più spaventevole proletariato urbano[7. Bloch commenta in questo modo il passaggio traumatico dalla schiavitù al proletariato: «se è spesso problematico il progresso nel bene e nella felicità, non è così per quello dello sfruttamento: questo è diventato sempre più secco e impudente. Lo schiavo greco era trattato meglio del servo della gleba e questi a sua volta meglio del salariato moderno. Poiché lo schiavo quanto meno era la bestia del suo padrone, pertanto era nutrito e aveva una stalla. Il servo della gleba invece doveva provvedere a se stesso, nella misura in cui gliene restava il tempo e il proprietario del villaccio gli lasciava una ciotola (…). Sino a che non cominciò la libertà di circolazione, l’uomo come libero possessore della forza lavoro (…). Sopraggiunsero allora le benedizioni della prima epoca industriale descritte da Engels; dopo lo schiavo, il servo della gleba e l’apprendista artigiano inghiottito un po’ per volta, apparve il proletario. Se sino ad allora la condizione della classe lavoratrice era stata miserabile, ora divenne infernale; il punto da cui partì il proletariato intorno al 1800 era quello dei galeotti. Spesso venivano già costretti al lavoro bambini di quattro anni; nelle oscure gallerie delle miniere o nelle umide, afose, puzzolenti fabbriche di cotone; l’età normale per lavorare erano otto o nove anni. Il tempo di lavoro per i bambini durava da sei a dieci ore, dai tredici ai diciotto anni aumentava a dodici ore, donne e uomini se ne stavano alla macchina per i loro sfruttatori dalle cinque del mattino alle otto di sera, spesso più a lungo» (E. Bloch, Il principio speranza, trad. it. di E. De Angelis e T. Cavallo, Garzanti, Milano 2005, pp. 1027-1028.] e dall’accumulazione si passava alla concentrazione del capitale[8. La concentrazione, in questo senso, come contribuisce a mettere in evidenza Tronti, a differenza dell’accumulazione originaria (che da avvio al plusvalore realizzato nella produzione agricola), è il presupposto dell’aumento della produttività e dunque del lavoro su scala industriale: cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Derive e Approdi, Roma 2006, p. 174 ss.] . Qui, il lavoro viene rielaborato nella nozione di lavoro socialmente necessario, servente alla produzione industriale, nello stesso tempo diventa oggetto di studio del diritto, se è vero che, proprio con l’impoverimento del ceto artigiano e il lento affermarsi dell’industria, nasce l’archetipo del contratto di lavoro[9. Cfr. W. Sombart, Il capitalismo moderno, trad. it. di A. Cavalli, Utet, Torino 1967.]. Nel lungo solco di questo passaggio, il lavoro è stato variamente definito come attività con la quale si ricava, attraverso un’opera di trasformazione che è quella dell’endostruere e quindi dell’industria, una qualche utilità da ciò che è originariamente inutile (Locke)[10. Cfr. J. Locke, Due Trattati sul governo e altri scritti politici, trad. it. di L. Pareyson, Utet, Torino 1982, II, V.], o come la misura reale e universale del valore di scambio di tutte le merci (Smith)[11. Cfr. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, trad. it. di A. e T. Biagiotti, Utet, Torino 2007, V.] o, ancora, come un’opera di mediazione specifica: la mediazione tra bisogni e il loro appagamento, la quale fa dipendere gli uomini gli uni dagli altri (Hegel)[12. Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. di V. Cicero, Rizzoli, Milano 1996, §§ 196-198.]. Al di là dei diversi sviluppi teorici, si è riconosciuto che il lavoro è una attività di trasformazione, una Formierung, utile, valida e valevole, la quale produce valore e dal valore discende in una particolare, forse perversa, circolarità economica, e che è capace, per Hegel, di coagulare la scissione dialettica del particolare e dell’universale all’interno della società civile, facendosi dunque parte integrante del sistema etico: il lavoro, come teorizzò ancora Hegel, è quell’elemento capace di conferire «al mezzo il valore e la sua adeguatezza al fine»[13. Ibid., § 198, p. 351.], in un fitto scambio di vicendevoli bisogni. E proprio perché i bisogni e il loro appagamento sono connessi al lavoro in un sistema di scambio e di valorizzazione, ecco che emerge un’altra caratteristica imprescindibile dell’essenza del lavoro: la divisione. Il lavoro è, per essenza, diviso: diviso nei diversi mestieri, mansioni, occupazioni, competenze, pratiche e professioni, in dipendenza dei diversi bisogni che è destinato ad appagare. La divisione del lavoro, invero, non è affatto un fenomeno moderno: essa infatti affonda le sue radici nel baratto, nella misura in cui, per riprendere un esempio di Marx, chi fabbricava archi e frecce barattava il suo prodotto con chi cacciava animali selvatici[14. Cfr. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1968, p. 144.] . È lo scambio stesso a produrre e legittimare – a valorizzare – la divisione del lavoro. Da tale assunto, Marx, sin dagli inizi, aveva ricavato le legge generale secondo cui «la differenza delle doti naturali tra gli individui non è la causa ma l’effetto della divisione del lavoro»[15. Ibid. Altrove Marx, specifica che la divisione del lavoro nasce e si specifica anche come divisione del lavoro nell’atto sessuale e come la divisione del lavoro che si produce spontaneamente o “naturalmente” in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del bisogno, del caso ecc. Ma la divisione del lavoro diventa una divisione reale, avverte Marx, solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale. Cfr. K. Marx, L’ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 2000, I.]. È il lavoro, in altre parole, nel suo diversificarsi, che va a diversificare le inclinazioni naturali. Tuttavia è solo nell’era moderna che tale concetto assume importanza decisiva. Con l’emergere dell’economia capitalista, infatti, è il capitale stesso che va a stimolare gli scambi e che, dunque, alimentando il mercato, va a determinare la divisione del lavoro[16. Cfr. K. Marx, Il capitale, trad. it. di R. Meyer, Newton Compton, Roma 2008, I, IV, 12.]. Anche per Adam Smith era chiaro come la divisione del lavoro, essendo quindi destinata sempre ad adeguarsi ai criteri della domanda, dipendesse chiaramente dall’accumulazione del capitale[17. Cfr. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, cit., p. 145 ss.]. Il destino del lavoro appare dunque tracciato: l’accumulazione del capitale, che è origine e fine del sistema economico capitalista, smuove il volume degli scambi facendosi domanda economica; il sempre più elevato volume degli scambi produce una sempre più elevata divisione del lavoro; il lavoro, dividendosi, provoca scissioni nella disposizione naturale ovvero nell’hexis, nella inclinazione qualitativa degli uomini, la quale è chiamata a diversificarsi sempre di più. Poggiando sulle stesse analisi di Smith, di Destutt De Tracy e di Mill, Marx conclude dunque che in una fase più avanzata della società capitalista, con la crescente diversificazione dei prodotti, dei bisogni e delle esigenze sociali, ogni uomo è destinato a vivere di scambi e a divenire un commerciante, giacché l’accumulazione dei capitali cresce con la divisione del lavoro e viceversa. Tanto lo scambio dipende dalla divisione del lavoro, tanto la capacità di dividere il lavoro diventa la capacità stessa del mercato di estendersi e dell’accumulazione dei capitali di accrescersi. In questo senso, il progresso della società capitalista non doveva essere incoraggiato, per Marx, se non per farlo esplodere nella sua intima contraddizione, quella di un cattivo infinito: l’evoluzione non è altro che la preparazione della rivoluzione. Durkheim vide dell’altro nella divisione del lavoro: non solo un fenomeno legato al funzionamento economico, quanto un processo di divisione più radicale, destinato a coinvolgere l’intera società umana[18. Cfr. E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, trad. it. di F. Airoldi Namer, Ed. La Comunità, Milano 1972, p. 53 ss.]. La divisione del lavoro ha un’influenza crescente, avverte Durkheim, «nelle più diverse sfere sociali. Le funzioni politiche, amministrative, giudiziarie, si specializzano progressivamente»[19. Ivi, p. 54.]. Siamo molto lontani dall’epoca in cui la filosofia era l’unica scienza; essa si è frantumata in una moltitudine di discipline specialistiche, ciascuna delle quali ha il proprio oggetto, il proprio metodo, il proprio spirito; il che a sua volta era stato già denunciato da Husserl a partire dal breve scritto Sulla fallita realizzazione del telos della umanità europea del 1922-23 e poi con La crisi delle scienze europee. Niente affatto lontane sembrano le preoccupazioni successive di Lukács o di Adorno. Non solo, dunque, la divisione del lavoro sarebbe all’origine delle differenti doti naturali che si sono sviluppate nell’uomo, ma anche della frammentazione o specializzazione del pensiero, delle scienze, delle discipline. È chiaro, infatti, che la divisione del lavoro è un fenomeno che rappresenta una frattura nel fare: una frattura profonda, destinata a moltiplicarsi al ritmo stesso in cui il fare ingrassa dilatandosi in sempre nuove forme, trascinando così i saperi in una incessante privatizzazione del proprio ambito. Il fatto però è che, proprio per il carattere negativo dell’infinito, alla divisione del lavoro non corrisponde in realtà una maggiore varietà di elementi, ma solo un maggior conflitto latente o manifesto di ciò che è stato diviso. Annota ancora Durkheim: «[…] se il lavoro si divide sempre più a misura che le società diventano più voluminose e più dense, ciò non accade perché le circostanze esteriori siano più varie, bensì perchè la lotta alla vita è più evidente»[20. Ivi, p. 266.]. Del resto Marx aveva già recuperato l’elemento negativo del lavoro e, nella nota distinzione tra lavoro astratto, incorporato nelle merci, e lavoro concreto, misurato dal tempo quantitativo (e qualitativo) necessario a produrle, tra valore e plusvalore[21. Cfr. K. Marx, Il Capitale, cit., I, 1,1 e I, 3, 5. Se, come è noto, per Marx, il processo lavorativo produce valori d’uso delle merci, la sostanza del valore, il processo di valorizzazione ne produce il plusvalore, la differenza, mediante la mediazione della moneta e del profitto, tra le diverse grandezze di valore.], aveva ricavato l’ulteriore connotazione del lavoro come alienazione e come sfruttamento. In questo senso è possibile dare una prima risposta, in chiave moderna, alla domanda su che cosa è il lavoro: il lavoro è quel fare, oggetto di scambio, che produce valore ed è in sé un valore e che, nel complessivo e progressivo svolgersi degli scambi, è destinato a dividersi in porzioni sempre più particolari, costringendo le disposizioni umane ad adattarsi di conseguenza, provocando conflitti interni ed esteriori all’individuo, innescando cioè un’evidente lotta per la vita che ha l’alienazione e lo sfruttamento come suoi corollari dialettici. Tuttavia, una prima contraddizione teorica appare evidente. Il lavoro da una parte è diviso in una miriade di differenti lavori per nulla omogenei, sempre più specializzati e parcellizzati; dall’altra, esso viene sempre più presentato come “insieme”, come categoria unitaria e indistinta, e ciò perché è la proprietà stessa del capitale ad essere, come polarità concettuale dominante, unitaria e indistinta. È interesse primario del capitalista tenere il lavoro, per quanto diviso, dentro un insieme concettuale unitario che, al pari della moneta, possa essere massimamente fungibile[22. Sul punto ad es. cfr. la critica di A. Gramsci, in Punti di meditazione per lo studio della economia politica, in Id., Quaderni dal carcere, Quaderno 10, II, §23.]. Il capitalista tratta di fatto il lavoro come lavoro differenziato esattamente come sono differenziati i beni e i servizi, ma mantiene concettualmente unitaria ed omogenea la complessità dell’insieme. Per correlato inverso, una divisione indefinita delle funzioni non poteva accadere se non sullo sfondo di una unificazione ideologica complessiva, proprio nel senso di una religione laica, quella dell’economia capitalista appunto che è un’economia politica e, massimamente, una politica sul lavoro. L’accelerazione, specialmente a partire dall’ultimo trentennio del secolo scorso, anche sulla scorta delle applicate teorie neoliberiste, guidate dalla fede assoluta nella mano invisibile e provvidenziale del mercato, è stata tale da mutare il senso stesso di questa divisione e da modificare ancora il senso di ciò che intendiamo per lavoro.
SE - 2-3/2010
DA - 2010
KW - economia classica KW - Marx KW - lavoro KW - filosofia politica
UR - https://www.rivistapolemos.it/tanto-lavoro-per-nulla-brevi-linee-di-filosofia-politica-sul-fenomeno-del-lavoro/?lang=it
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PB - Donzelli Editore
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@article{,
author = {Pier Paolo Fiorini},
title = {TANTO LAVORO PER NULLA Brevi linee di filosofia politica sul fenomeno del lavoro},
publisher = {Donzelli Editore},
year = {2010},
ISBN = {8890413611},
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abstract = {Cosa intendiamo per lavoro? Si definisce ‘lavoro’ un’attività che viene espletata per la soddisfazione diretta o indiretta dei bisogni individuali (propri e altrui): un fare dal quale sorge un soddisfare. Ma in cosa consistono questo fare e questo soddisfare e che significato e quale valenza hanno per noi? È chiaro che la nozione del lavoro è variata a seconda delle epoche e delle civiltà[1. Nota è la maledizione del lavoro contenuta nella Bibbia, Genesi III 17-19, secondo la quale l’uomo è costretto a lavorare come conseguenza del peccato e della punizione, la quale ad esempio secondo Weber, avrebbe caratterizzato il disprezzo, ribadito nel Nuovo Testamento, del cristianesimo per il lavoro: sul punto cfr. M. Weber, Economia e Società. Teoria delle categorie sociologiche, trad. it. di T. Bogiatti, F. Casabianca, P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1961, p. 790 ss.]. Ed è altrettanto chiaro che essa sia destinata a variare anche in dipendenza degli attuali mutamenti storici, in forme probabilmente inedite e forse inaudite. Se nell’antichità, come afferma Nietzsche, il lavoro era considerata un’attività riservata ai poveri e agli schiavi tanto che «un uomo di buoni natali nascondeva il suo lavoro quando era costretto a lavorare» e «lo schiavo lavorava oppresso dal sentimento di fare qualcosa di spregevole», nell’età moderna si è fatta strada una concezione pressoché opposta, governata dal «meglio fare una qualsiasi cosa che nulla», dove «non si ha più tempo né energia per i cerimoniali», giacché «la vita a caccia di guadagno costringe continuamente a prodigarsi fino all’esaurimento in un costante fingere, abbindolare o prevenire»[2. F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. it. di G. Vattimo, Einaudi, Torino 1979, § 329, pp. 184- 185.] Tale rovesciamento, già per Constant, doveva essere decisivo nel differenziare il senso stesso della libertà che avevano gli antichi da quella dei moderni: con l’abolizione della schiavitù, infatti, era stato virtualmente abolito anche il tempo libero da dedicare alla vita politica e tanto meno alla vita contemplativa; di contro, il commercio, a differenza della guerra, non lasciava intervalli di inattività: per cui, una volta rotto il binomio otium/bellum, gli individui, afferma Constant, preferivano ora dedicarsi alle speculazioni economiche più che alla discussione politica, il che non faceva però che alimentare in via esponenziale il senso individualista dell’individuo stesso e la forma privata dei suoi desideri[3. Cfr. B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, in Id., Antologia degli scritti politici, trad. it. di A. Zanfarino, Il Mulino, Bologna 1962, p. 36 ss. e p. 42 ss.]. Se dunque, nella Grecia classica, si riteneva, a partire da Omero, che la peggiore delle condizioni umane fosse quella del thetes[4. Cfr. Omero, Odissea, XI, vv. 487-491.] , dell’operaio agricolo costretto a vendere le proprie braccia[5. A differenza del contadino che ricavava direttamente dalla terra i bisogni per sé e per la famiglia, sviluppando altresì virtù derivate come il coraggio di difendere le proprie terre e dunque la propria città e la disciplina nel comandare (cfr. Senofonte, Economico, 5, 4-17, cit. in R. Flacelière, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, trad. it. di M.G. Meriggi, Rizzoli, Milano 1998, p. 163), l’operaio agricolo era, infatti, salariato e retribuito, vendeva, in altre parole, il frutto del suo lavoro che, sin dal principio, non gli apparteneva.] , e si rimproverava ai Sofisti di farsi pagare per le loro lezioni, assumendo, in generale, come sostenne chiaramente Aristotele, che non si dovesse riconoscere il diritto di cittadinanza a coloro che avevano bisogno di lavorare per vivere (e ciò nella misura in cui i lavori retribuiti impedirebbero allo spirito ogni elevatezza)[6. Cfr. Aristotele, Politica, III, 3, 2-4 e V, 2, 1-2.], nella realtà sociale moderna il lavoro, pur conservando il doppio senso di fatica (molestia) e di prestazione (opus), di parto doloroso e di creazione nuova, è assurto a concetto politico autonomo e, ancor più, ha acquisito dignità, valore, valenza giuridica, fino a divenire il perno fondante della vita associata. Oltre all’abolizione, almeno formale, della schiavitù, il passaggio storico dovette avvenire in quel preciso salto di qualità dell’accumulazione dei capitali rappresentato dall’avvento delle banche e, contemporaneamente, nel passaggio dalla bottega artigiana all’industria, lungo il quale la schiavitù, divenuta servitù della gleba, si preparava a trasformarsi nel ben più spaventevole proletariato urbano[7. Bloch commenta in questo modo il passaggio traumatico dalla schiavitù al proletariato: «se è spesso problematico il progresso nel bene e nella felicità, non è così per quello dello sfruttamento: questo è diventato sempre più secco e impudente. Lo schiavo greco era trattato meglio del servo della gleba e questi a sua volta meglio del salariato moderno. Poiché lo schiavo quanto meno era la bestia del suo padrone, pertanto era nutrito e aveva una stalla. Il servo della gleba invece doveva provvedere a se stesso, nella misura in cui gliene restava il tempo e il proprietario del villaccio gli lasciava una ciotola (…). Sino a che non cominciò la libertà di circolazione, l’uomo come libero possessore della forza lavoro (…). Sopraggiunsero allora le benedizioni della prima epoca industriale descritte da Engels; dopo lo schiavo, il servo della gleba e l’apprendista artigiano inghiottito un po’ per volta, apparve il proletario. Se sino ad allora la condizione della classe lavoratrice era stata miserabile, ora divenne infernale; il punto da cui partì il proletariato intorno al 1800 era quello dei galeotti. Spesso venivano già costretti al lavoro bambini di quattro anni; nelle oscure gallerie delle miniere o nelle umide, afose, puzzolenti fabbriche di cotone; l’età normale per lavorare erano otto o nove anni. Il tempo di lavoro per i bambini durava da sei a dieci ore, dai tredici ai diciotto anni aumentava a dodici ore, donne e uomini se ne stavano alla macchina per i loro sfruttatori dalle cinque del mattino alle otto di sera, spesso più a lungo» (E. Bloch, Il principio speranza, trad. it. di E. De Angelis e T. Cavallo, Garzanti, Milano 2005, pp. 1027-1028.] e dall’accumulazione si passava alla concentrazione del capitale[8. La concentrazione, in questo senso, come contribuisce a mettere in evidenza Tronti, a differenza dell’accumulazione originaria (che da avvio al plusvalore realizzato nella produzione agricola), è il presupposto dell’aumento della produttività e dunque del lavoro su scala industriale: cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Derive e Approdi, Roma 2006, p. 174 ss.] . Qui, il lavoro viene rielaborato nella nozione di lavoro socialmente necessario, servente alla produzione industriale, nello stesso tempo diventa oggetto di studio del diritto, se è vero che, proprio con l’impoverimento del ceto artigiano e il lento affermarsi dell’industria, nasce l’archetipo del contratto di lavoro[9. Cfr. W. Sombart, Il capitalismo moderno, trad. it. di A. Cavalli, Utet, Torino 1967.]. Nel lungo solco di questo passaggio, il lavoro è stato variamente definito come attività con la quale si ricava, attraverso un’opera di trasformazione che è quella dell’endostruere e quindi dell’industria, una qualche utilità da ciò che è originariamente inutile (Locke)[10. Cfr. J. Locke, Due Trattati sul governo e altri scritti politici, trad. it. di L. Pareyson, Utet, Torino 1982, II, V.], o come la misura reale e universale del valore di scambio di tutte le merci (Smith)[11. Cfr. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, trad. it. di A. e T. Biagiotti, Utet, Torino 2007, V.] o, ancora, come un’opera di mediazione specifica: la mediazione tra bisogni e il loro appagamento, la quale fa dipendere gli uomini gli uni dagli altri (Hegel)[12. Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. di V. Cicero, Rizzoli, Milano 1996, §§ 196-198.]. Al di là dei diversi sviluppi teorici, si è riconosciuto che il lavoro è una attività di trasformazione, una Formierung, utile, valida e valevole, la quale produce valore e dal valore discende in una particolare, forse perversa, circolarità economica, e che è capace, per Hegel, di coagulare la scissione dialettica del particolare e dell’universale all’interno della società civile, facendosi dunque parte integrante del sistema etico: il lavoro, come teorizzò ancora Hegel, è quell’elemento capace di conferire «al mezzo il valore e la sua adeguatezza al fine»[13. Ibid., § 198, p. 351.], in un fitto scambio di vicendevoli bisogni. E proprio perché i bisogni e il loro appagamento sono connessi al lavoro in un sistema di scambio e di valorizzazione, ecco che emerge un’altra caratteristica imprescindibile dell’essenza del lavoro: la divisione. Il lavoro è, per essenza, diviso: diviso nei diversi mestieri, mansioni, occupazioni, competenze, pratiche e professioni, in dipendenza dei diversi bisogni che è destinato ad appagare. La divisione del lavoro, invero, non è affatto un fenomeno moderno: essa infatti affonda le sue radici nel baratto, nella misura in cui, per riprendere un esempio di Marx, chi fabbricava archi e frecce barattava il suo prodotto con chi cacciava animali selvatici[14. Cfr. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1968, p. 144.] . È lo scambio stesso a produrre e legittimare – a valorizzare – la divisione del lavoro. Da tale assunto, Marx, sin dagli inizi, aveva ricavato le legge generale secondo cui «la differenza delle doti naturali tra gli individui non è la causa ma l’effetto della divisione del lavoro»[15. Ibid. Altrove Marx, specifica che la divisione del lavoro nasce e si specifica anche come divisione del lavoro nell’atto sessuale e come la divisione del lavoro che si produce spontaneamente o “naturalmente” in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del bisogno, del caso ecc. Ma la divisione del lavoro diventa una divisione reale, avverte Marx, solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale. Cfr. K. Marx, L’ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 2000, I.]. È il lavoro, in altre parole, nel suo diversificarsi, che va a diversificare le inclinazioni naturali. Tuttavia è solo nell’era moderna che tale concetto assume importanza decisiva. Con l’emergere dell’economia capitalista, infatti, è il capitale stesso che va a stimolare gli scambi e che, dunque, alimentando il mercato, va a determinare la divisione del lavoro[16. Cfr. K. Marx, Il capitale, trad. it. di R. Meyer, Newton Compton, Roma 2008, I, IV, 12.]. Anche per Adam Smith era chiaro come la divisione del lavoro, essendo quindi destinata sempre ad adeguarsi ai criteri della domanda, dipendesse chiaramente dall’accumulazione del capitale[17. Cfr. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, cit., p. 145 ss.]. Il destino del lavoro appare dunque tracciato: l’accumulazione del capitale, che è origine e fine del sistema economico capitalista, smuove il volume degli scambi facendosi domanda economica; il sempre più elevato volume degli scambi produce una sempre più elevata divisione del lavoro; il lavoro, dividendosi, provoca scissioni nella disposizione naturale ovvero nell’hexis, nella inclinazione qualitativa degli uomini, la quale è chiamata a diversificarsi sempre di più. Poggiando sulle stesse analisi di Smith, di Destutt De Tracy e di Mill, Marx conclude dunque che in una fase più avanzata della società capitalista, con la crescente diversificazione dei prodotti, dei bisogni e delle esigenze sociali, ogni uomo è destinato a vivere di scambi e a divenire un commerciante, giacché l’accumulazione dei capitali cresce con la divisione del lavoro e viceversa. Tanto lo scambio dipende dalla divisione del lavoro, tanto la capacità di dividere il lavoro diventa la capacità stessa del mercato di estendersi e dell’accumulazione dei capitali di accrescersi. In questo senso, il progresso della società capitalista non doveva essere incoraggiato, per Marx, se non per farlo esplodere nella sua intima contraddizione, quella di un cattivo infinito: l’evoluzione non è altro che la preparazione della rivoluzione. Durkheim vide dell’altro nella divisione del lavoro: non solo un fenomeno legato al funzionamento economico, quanto un processo di divisione più radicale, destinato a coinvolgere l’intera società umana[18. Cfr. E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, trad. it. di F. Airoldi Namer, Ed. La Comunità, Milano 1972, p. 53 ss.]. La divisione del lavoro ha un’influenza crescente, avverte Durkheim, «nelle più diverse sfere sociali. Le funzioni politiche, amministrative, giudiziarie, si specializzano progressivamente»[19. Ivi, p. 54.]. Siamo molto lontani dall’epoca in cui la filosofia era l’unica scienza; essa si è frantumata in una moltitudine di discipline specialistiche, ciascuna delle quali ha il proprio oggetto, il proprio metodo, il proprio spirito; il che a sua volta era stato già denunciato da Husserl a partire dal breve scritto Sulla fallita realizzazione del telos della umanità europea del 1922-23 e poi con La crisi delle scienze europee. Niente affatto lontane sembrano le preoccupazioni successive di Lukács o di Adorno. Non solo, dunque, la divisione del lavoro sarebbe all’origine delle differenti doti naturali che si sono sviluppate nell’uomo, ma anche della frammentazione o specializzazione del pensiero, delle scienze, delle discipline. È chiaro, infatti, che la divisione del lavoro è un fenomeno che rappresenta una frattura nel fare: una frattura profonda, destinata a moltiplicarsi al ritmo stesso in cui il fare ingrassa dilatandosi in sempre nuove forme, trascinando così i saperi in una incessante privatizzazione del proprio ambito. Il fatto però è che, proprio per il carattere negativo dell’infinito, alla divisione del lavoro non corrisponde in realtà una maggiore varietà di elementi, ma solo un maggior conflitto latente o manifesto di ciò che è stato diviso. Annota ancora Durkheim: «[…] se il lavoro si divide sempre più a misura che le società diventano più voluminose e più dense, ciò non accade perché le circostanze esteriori siano più varie, bensì perchè la lotta alla vita è più evidente»[20. Ivi, p. 266.]. Del resto Marx aveva già recuperato l’elemento negativo del lavoro e, nella nota distinzione tra lavoro astratto, incorporato nelle merci, e lavoro concreto, misurato dal tempo quantitativo (e qualitativo) necessario a produrle, tra valore e plusvalore[21. Cfr. K. Marx, Il Capitale, cit., I, 1,1 e I, 3, 5. Se, come è noto, per Marx, il processo lavorativo produce valori d’uso delle merci, la sostanza del valore, il processo di valorizzazione ne produce il plusvalore, la differenza, mediante la mediazione della moneta e del profitto, tra le diverse grandezze di valore.], aveva ricavato l’ulteriore connotazione del lavoro come alienazione e come sfruttamento. In questo senso è possibile dare una prima risposta, in chiave moderna, alla domanda su che cosa è il lavoro: il lavoro è quel fare, oggetto di scambio, che produce valore ed è in sé un valore e che, nel complessivo e progressivo svolgersi degli scambi, è destinato a dividersi in porzioni sempre più particolari, costringendo le disposizioni umane ad adattarsi di conseguenza, provocando conflitti interni ed esteriori all’individuo, innescando cioè un’evidente lotta per la vita che ha l’alienazione e lo sfruttamento come suoi corollari dialettici. Tuttavia, una prima contraddizione teorica appare evidente. Il lavoro da una parte è diviso in una miriade di differenti lavori per nulla omogenei, sempre più specializzati e parcellizzati; dall’altra, esso viene sempre più presentato come “insieme”, come categoria unitaria e indistinta, e ciò perché è la proprietà stessa del capitale ad essere, come polarità concettuale dominante, unitaria e indistinta. È interesse primario del capitalista tenere il lavoro, per quanto diviso, dentro un insieme concettuale unitario che, al pari della moneta, possa essere massimamente fungibile[22. Sul punto ad es. cfr. la critica di A. Gramsci, in Punti di meditazione per lo studio della economia politica, in Id., Quaderni dal carcere, Quaderno 10, II, §23.]. Il capitalista tratta di fatto il lavoro come lavoro differenziato esattamente come sono differenziati i beni e i servizi, ma mantiene concettualmente unitaria ed omogenea la complessità dell’insieme. Per correlato inverso, una divisione indefinita delle funzioni non poteva accadere se non sullo sfondo di una unificazione ideologica complessiva, proprio nel senso di una religione laica, quella dell’economia capitalista appunto che è un’economia politica e, massimamente, una politica sul lavoro. L’accelerazione, specialmente a partire dall’ultimo trentennio del secolo scorso, anche sulla scorta delle applicate teorie neoliberiste, guidate dalla fede assoluta nella mano invisibile e provvidenziale del mercato, è stata tale da mutare il senso stesso di questa divisione e da modificare ancora il senso di ciò che intendiamo per lavoro.}
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