Il deserto è quell’«indistinto, che si distingue dal distinto per la sua indistinzione»1. E l’impronta del deserto è l’impronta di Dio, il contrassegno, il sigillo di un Dio che non è questo né quello, che non è qui né lì, che non è buono né altro, in quanto pura «deità» («Gotheit») e «supremo distacco» da qualsivoglia attributo e determinatezza mondana2. Il Dio eckhartiano è un deserto meraviglioso che non ha tempo, forme o luogo, poiché Eckhart si sforza di pensarlo oltre i vincoli imposti dalla teologia positiva, connotandolo esclusivamente di una purezza d’essere («puritas essendi») semplice e indefinibile che sconfina nel nulla di una «parola inespressa»3. Dietro e dentro l’Essere divino Eckhart lascia intravedere la fessura del «nulla superessenziale». In una duplice accezione Dio rappresenta una «negazione della negazione»: da una parte perché nega la negatività determinata del molteplice creaturale, dall’altra perché Dio nega perfino il proprio essere per potersi elevare all’altezza di un Nulla che sia al di sopra dell’Essere4. L’immagine del deserto cara a Eckhart compare a più riprese nel corso delle otto strofe che compongono il Granum sinapis, poemetto in lingua volgare attribuito tardamente a Eckhart, che Jarczyk e Labarrière scelgono come punto di partenza per introdurre l’esposizione della mistica speculativa del Maestro. L’«ouverture» suggerisce che nel Granum sinapis, in forma poetica e immaginifica, siano illustrati in nuce tutti i temi dell’ontoteologia eckhartiana (l’Uno e la Trinità, la generazione del «Lógos», il «distacco» e l’«abbandono», l’Essere e il Nulla di Dio e della creatura) e dietro di essi si avverte l’eco non troppo remota delle ascendenze neoplatoniche e agostiniane della metafisica di Eckhart. La scelta degli autori, soltanto parzialmente condivisibile, è quella di soffermarsi ad approfondire l’opera tedesca (sermoni e trattati), affrontando solo marginalmente l’esame delle opere latine, opere di scuola redatte durante i magisteri parigini (1302 e 1311-1313). Pur dichiarando il proposito di volersi accostare all’opera di Eckhart con una prospettiva e un metodo capaci di salvaguardare la coerenza intrinseca della sua esperienza speculativa, e nonostante l’intento programmatico di voler tenere insieme l’iter del «Lesemeister» e quello del «Lebemeister», la predilezione di Jarczyk e Labarrière va ai testi del «Lebemeister». In realtà la prima sezione del libro – quella storico-biografica – tiene fede al proposito iniziale. Qui gli autori ricostruiscono in maniera rigorosa la biografia intellettuale di Eckhart da Erfurt al processo avignonese (1328), contestualizzandola puntualmente all’interno del dibattito teologico e dei conflitti religioso- istituzionali del suo tempo, presentano i referenti e le fonti del suo misticismo, illustrano gli esiti della sua eredità speculativa dai giovani discepoli renani – Enrico Suso e Giovanni Taulero – fino a Heidegger passando attraverso Cusano, san Giovanni della Croce, Jakob Böhme, Angelus Silesius e soprattutto Hegel. La seconda parte del libro, che traccia un percorso tematico-concettuale attraverso trattati e sermoni, privilegia invece l’opera dell’Eckhart predicatore, e al latino dotto del «Magister theologiae sacrae» preferisce il volgare tedesco del «Bruder». Jarczyk e Labarrière motivano questa scelta con la volontà di ricostruire «quell’unità metafisico-mistica [del pensiero di Eckhart] presente ovunque, nel versante dell’opera che la esprime in modo eminente, secondo la destinazione più larga e con tutte le risorse di una lingua che si spalanca nella freschezza della sua creazione»5. Per i due autori il corpus dei sermoni costituisce dunque una «parola singolare (…) perché testimonia il coinvolgimento personale del suo autore (…) il quale non può cancellare il segno di quell’esperienza su cui fonda le sue certezze»6. I testi presi in esame, a eccezione delle Istruzioni spirituali – che risalgono al 1298 –, si collocano nel decennio che va dal 1313 al 1322, cioè tra la fine del terzo magistero parigino e la fine (1324) del vicariato di Strasburgo: in questo periodo Meister Eckhart è costantemente in viaggio e impegnato in un’intensa attività omiletica al servizio dei confratelli domenicani, dei novizi, delle beghine e dei nove conventi femminili di cui Eckhart fu amministratore oltre che pastore spirituale. Il privilegio accordato all’opera tedesca non ha soltanto il merito di restituire al lettore, attraverso le abbondanti citazioni, alcune tra le più belle pagine della predicazione eckhartiana, cariche di «pathos» e fantasia, ma lascia anche intendere il tentativo degli autori di riscattare la mistica di Eckhart dalla facile, ma non completamente infondata, accusa di intellettualismo. Di conseguenza le Quaestiones parisienses, espressione della fase cosiddetta «meontologica» della mistica eckhartiana, in cui il Maestro celebra e argomenta il primato dell’«intelligere» quale fondamento dell’essenza divina, non vengono mai discusse nel corso del testo7. Nella stessa direzione va la proposta degli autori di interpretare il distacco eckhartiano in senso ontologico e non etico, insistendo sull’accezione semantica positiva da attribuire al termine «Abgeschiedenheit», operazione che non convince fino in fondo8.
M. Eckhart, «Commento alla Sapienza n.154», in Id., Commento alla “Sapienza”, a cura di M. Vannini, Nardini, Firenze 1994. ↩
Id., Il distacco, in Id., Dell’uomo nobile, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 1999, p. 146. ↩
Id., Misit dominus manum suam, in Id., Prediche, a cura di M. Vannini, Mondadori, Milano 1995, p. 79. ↩
Cfr. Id., Quasi stella matutina, in Id., La nobiltà dello spirito, a cura di M. Vannini, Piemme, Casale Monferrato 1996, p. 101; Id., Renovamini spiritu mentis vestrae e Unus est deus et pater omnium, in Id., Sermoni tedeschi, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 1985, p. 42, 255. ↩
G. Jarczyk, P.-J. Labarrière, L’impronta del deserto. L’ateismo mistico di Meister Eckhart, tr. it. a cura di D. Carosso e M.P. Donat-Cattin, Guerini, Milano 2000, p. 124. ↩
La definizione di «meontologica» – nell’accezione di «ontologicamente negativa» – si deve a E. Zum Brunn (cfr. E. Zum Brunn, Maître Eckhart à Paris: une critique médiévale de l’ontothéologie: les questions parisiennes n. 1 et n. 2 d’Eckhart, Puf, Paris 1984) che con questa espressione si riferisce alla seconda fase della speculazione eckhartiana caratterizzata dall’equazione «Deus est intelligere» e dalla negazione del predicato d’essere all’essenza divina. ↩
G. Jarczyk, P.-J. Labarrière, L’impronta del deserto, cit., p. 42. ↩
Mascat, Jamila M. H.."RISONANZE ECKHARTIANE IN HEGEL. A partire da «L’impronta del deserto» di Jarczyk e Labarrière". PólemosI. 1. (2006): 219-236https://www.rivistapolemos.it/risonanze-eckhartiane-in-hegel-a-partire-da-limpronta-del-deserto-di-jarczyk-e-labarriere/?lang=it
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Mascat, J.(2006). "RISONANZE ECKHARTIANE IN HEGEL. A partire da «L’impronta del deserto» di Jarczyk e Labarrière". PólemosI. (1). 219-236https://www.rivistapolemos.it/risonanze-eckhartiane-in-hegel-a-partire-da-limpronta-del-deserto-di-jarczyk-e-labarriere/?lang=it
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Mascat, Jamila M. H..2006. "RISONANZE ECKHARTIANE IN HEGEL. A partire da «L’impronta del deserto» di Jarczyk e Labarrière". PólemosI (1). Donzelli Editore: 219-236. https://www.rivistapolemos.it/risonanze-eckhartiane-in-hegel-a-partire-da-limpronta-del-deserto-di-jarczyk-e-labarriere/?lang=it
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TY - JOUR
A1 - Mascat, Jamila M. H.
PY - 2006
TI - RISONANZE ECKHARTIANE IN HEGEL. A partire da «L’impronta del deserto» di Jarczyk e Labarrière
JO - Plemos
SN - 88-901301-0-5/2281-9517
AB - Il deserto è quell’«indistinto, che si distingue dal distinto per la sua indistinzione»[1. M. Eckhart, «Commento alla Sapienza n.154», in Id., Commento alla “Sapienza”, a cura di M. Vannini, Nardini, Firenze 1994.]. E l’impronta del deserto è l’impronta di Dio, il contrassegno, il sigillo di un Dio che non è questo né quello, che non è qui né lì, che non è buono né altro, in quanto pura «deità» («Gotheit») e «supremo distacco» da qualsivoglia attributo e determinatezza mondana[2. Id., Il distacco, in Id., Dell’uomo nobile, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 1999, p. 146.]. Il Dio eckhartiano è un deserto meraviglioso che non ha tempo, forme o luogo, poiché Eckhart si sforza di pensarlo oltre i vincoli imposti dalla teologia positiva, connotandolo esclusivamente di una purezza d’essere («puritas essendi») semplice e indefinibile che sconfina nel nulla di una «parola inespressa»[3. Id., Misit dominus manum suam, in Id., Prediche, a cura di M. Vannini, Mondadori, Milano 1995, p. 79.]. Dietro e dentro l’Essere divino Eckhart lascia intravedere la fessura del «nulla superessenziale». In una duplice accezione Dio rappresenta una «negazione della negazione»: da una parte perché nega la negatività determinata del molteplice creaturale, dall’altra perché Dio nega perfino il proprio essere per potersi elevare all’altezza di un Nulla che sia al di sopra dell’Essere[4. Cfr. Id., Quasi stella matutina, in Id., La nobiltà dello spirito, a cura di M. Vannini, Piemme, Casale Monferrato 1996, p. 101; Id., Renovamini spiritu mentis vestrae e Unus est deus et pater omnium, in Id., Sermoni tedeschi, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 1985, p. 42, 255.]. L’immagine del deserto cara a Eckhart compare a più riprese nel corso delle otto strofe che compongono il Granum sinapis, poemetto in lingua volgare attribuito tardamente a Eckhart, che Jarczyk e Labarrière scelgono come punto di partenza per introdurre l’esposizione della mistica speculativa del Maestro. L’«ouverture» suggerisce che nel Granum sinapis, in forma poetica e immaginifica, siano illustrati in nuce tutti i temi dell’ontoteologia eckhartiana (l’Uno e la Trinità, la generazione del «Lógos», il «distacco» e l’«abbandono», l’Essere e il Nulla di Dio e della creatura) e dietro di essi si avverte l’eco non troppo remota delle ascendenze neoplatoniche e agostiniane della metafisica di Eckhart. La scelta degli autori, soltanto parzialmente condivisibile, è quella di soffermarsi ad approfondire l’opera tedesca (sermoni e trattati), affrontando solo marginalmente l’esame delle opere latine, opere di scuola redatte durante i magisteri parigini (1302 e 1311-1313). Pur dichiarando il proposito di volersi accostare all’opera di Eckhart con una prospettiva e un metodo capaci di salvaguardare la coerenza intrinseca della sua esperienza speculativa, e nonostante l’intento programmatico di voler tenere insieme l’iter del «Lesemeister» e quello del «Lebemeister», la predilezione di Jarczyk e Labarrière va ai testi del «Lebemeister». In realtà la prima sezione del libro – quella storico-biografica – tiene fede al proposito iniziale. Qui gli autori ricostruiscono in maniera rigorosa la biografia intellettuale di Eckhart da Erfurt al processo avignonese (1328), contestualizzandola puntualmente all’interno del dibattito teologico e dei conflitti religioso- istituzionali del suo tempo, presentano i referenti e le fonti del suo misticismo, illustrano gli esiti della sua eredità speculativa dai giovani discepoli renani – Enrico Suso e Giovanni Taulero – fino a Heidegger passando attraverso Cusano, san Giovanni della Croce, Jakob Böhme, Angelus Silesius e soprattutto Hegel. La seconda parte del libro, che traccia un percorso tematico-concettuale attraverso trattati e sermoni, privilegia invece l’opera dell’Eckhart predicatore, e al latino dotto del «Magister theologiae sacrae» preferisce il volgare tedesco del «Bruder». Jarczyk e Labarrière motivano questa scelta con la volontà di ricostruire «quell’unità metafisico-mistica [del pensiero di Eckhart] presente ovunque, nel versante dell’opera che la esprime in modo eminente, secondo la destinazione più larga e con tutte le risorse di una lingua che si spalanca nella freschezza della sua creazione»[5. G. Jarczyk, P.-J. Labarrière, L’impronta del deserto. L’ateismo mistico di Meister Eckhart, tr. it. a cura di D. Carosso e M.P. Donat-Cattin, Guerini, Milano 2000, p. 124.]. Per i due autori il corpus dei sermoni costituisce dunque una «parola singolare (...) perché testimonia il coinvolgimento personale del suo autore (...) il quale non può cancellare il segno di quell’esperienza su cui fonda le sue certezze»[6. Ibidem.]. I testi presi in esame, a eccezione delle Istruzioni spirituali – che risalgono al 1298 –, si collocano nel decennio che va dal 1313 al 1322, cioè tra la fine del terzo magistero parigino e la fine (1324) del vicariato di Strasburgo: in questo periodo Meister Eckhart è costantemente in viaggio e impegnato in un’intensa attività omiletica al servizio dei confratelli domenicani, dei novizi, delle beghine e dei nove conventi femminili di cui Eckhart fu amministratore oltre che pastore spirituale. Il privilegio accordato all’opera tedesca non ha soltanto il merito di restituire al lettore, attraverso le abbondanti citazioni, alcune tra le più belle pagine della predicazione eckhartiana, cariche di «pathos» e fantasia, ma lascia anche intendere il tentativo degli autori di riscattare la mistica di Eckhart dalla facile, ma non completamente infondata, accusa di intellettualismo. Di conseguenza le Quaestiones parisienses, espressione della fase cosiddetta «meontologica» della mistica eckhartiana, in cui il Maestro celebra e argomenta il primato dell’«intelligere» quale fondamento dell’essenza divina, non vengono mai discusse nel corso del testo[7. La definizione di «meontologica» – nell’accezione di «ontologicamente negativa» – si deve a E. Zum Brunn (cfr. E. Zum Brunn, Maître Eckhart à Paris: une critique médiévale de l’ontothéologie: les questions parisiennes n. 1 et n. 2 d’Eckhart, Puf, Paris 1984) che con questa espressione si riferisce alla seconda fase della speculazione eckhartiana caratterizzata dall’equazione «Deus est intelligere» e dalla negazione del predicato d’essere all’essenza divina.]. Nella stessa direzione va la proposta degli autori di interpretare il distacco eckhartiano in senso ontologico e non etico, insistendo sull’accezione semantica positiva da attribuire al termine «Abgeschiedenheit», operazione che non convince fino in fondo[8. G. Jarczyk, P.-J. Labarrière, L’impronta del deserto, cit., p. 42.].
SE - 1/2006
DA - 2006
KW - Hegel KW - DIALETTICA KW - mesiter Eckhart
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Vannini, Mondadori, Milano 1995, p. 79.]. Dietro e dentro l’Essere divino Eckhart lascia intravedere la fessura del «nulla superessenziale». In una duplice accezione Dio rappresenta una «negazione della negazione»: da una parte perché nega la negatività determinata del molteplice creaturale, dall’altra perché Dio nega perfino il proprio essere per potersi elevare all’altezza di un Nulla che sia al di sopra dell’Essere[4. Cfr. Id., Quasi stella matutina, in Id., La nobiltà dello spirito, a cura di M. Vannini, Piemme, Casale Monferrato 1996, p. 101; Id., Renovamini spiritu mentis vestrae e Unus est deus et pater omnium, in Id., Sermoni tedeschi, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 1985, p. 42, 255.]. L’immagine del deserto cara a Eckhart compare a più riprese nel corso delle otto strofe che compongono il Granum sinapis, poemetto in lingua volgare attribuito tardamente a Eckhart, che Jarczyk e Labarrière scelgono come punto di partenza per introdurre l’esposizione della mistica speculativa del Maestro. L’«ouverture» suggerisce che nel Granum sinapis, in forma poetica e immaginifica, siano illustrati in nuce tutti i temi dell’ontoteologia eckhartiana (l’Uno e la Trinità, la generazione del «Lógos», il «distacco» e l’«abbandono», l’Essere e il Nulla di Dio e della creatura) e dietro di essi si avverte l’eco non troppo remota delle ascendenze neoplatoniche e agostiniane della metafisica di Eckhart. La scelta degli autori, soltanto parzialmente condivisibile, è quella di soffermarsi ad approfondire l’opera tedesca (sermoni e trattati), affrontando solo marginalmente l’esame delle opere latine, opere di scuola redatte durante i magisteri parigini (1302 e 1311-1313). Pur dichiarando il proposito di volersi accostare all’opera di Eckhart con una prospettiva e un metodo capaci di salvaguardare la coerenza intrinseca della sua esperienza speculativa, e nonostante l’intento programmatico di voler tenere insieme l’iter del «Lesemeister» e quello del «Lebemeister», la predilezione di Jarczyk e Labarrière va ai testi del «Lebemeister». In realtà la prima sezione del libro – quella storico-biografica – tiene fede al proposito iniziale. Qui gli autori ricostruiscono in maniera rigorosa la biografia intellettuale di Eckhart da Erfurt al processo avignonese (1328), contestualizzandola puntualmente all’interno del dibattito teologico e dei conflitti religioso- istituzionali del suo tempo, presentano i referenti e le fonti del suo misticismo, illustrano gli esiti della sua eredità speculativa dai giovani discepoli renani – Enrico Suso e Giovanni Taulero – fino a Heidegger passando attraverso Cusano, san Giovanni della Croce, Jakob Böhme, Angelus Silesius e soprattutto Hegel. La seconda parte del libro, che traccia un percorso tematico-concettuale attraverso trattati e sermoni, privilegia invece l’opera dell’Eckhart predicatore, e al latino dotto del «Magister theologiae sacrae» preferisce il volgare tedesco del «Bruder». Jarczyk e Labarrière motivano questa scelta con la volontà di ricostruire «quell’unità metafisico-mistica [del pensiero di Eckhart] presente ovunque, nel versante dell’opera che la esprime in modo eminente, secondo la destinazione più larga e con tutte le risorse di una lingua che si spalanca nella freschezza della sua creazione»[5. G. Jarczyk, P.-J. Labarrière, L’impronta del deserto. L’ateismo mistico di Meister Eckhart, tr. it. a cura di D. Carosso e M.P. Donat-Cattin, Guerini, Milano 2000, p. 124.]. Per i due autori il corpus dei sermoni costituisce dunque una «parola singolare (...) perché testimonia il coinvolgimento personale del suo autore (...) il quale non può cancellare il segno di quell’esperienza su cui fonda le sue certezze»[6. Ibidem.]. I testi presi in esame, a eccezione delle Istruzioni spirituali – che risalgono al 1298 –, si collocano nel decennio che va dal 1313 al 1322, cioè tra la fine del terzo magistero parigino e la fine (1324) del vicariato di Strasburgo: in questo periodo Meister Eckhart è costantemente in viaggio e impegnato in un’intensa attività omiletica al servizio dei confratelli domenicani, dei novizi, delle beghine e dei nove conventi femminili di cui Eckhart fu amministratore oltre che pastore spirituale. Il privilegio accordato all’opera tedesca non ha soltanto il merito di restituire al lettore, attraverso le abbondanti citazioni, alcune tra le più belle pagine della predicazione eckhartiana, cariche di «pathos» e fantasia, ma lascia anche intendere il tentativo degli autori di riscattare la mistica di Eckhart dalla facile, ma non completamente infondata, accusa di intellettualismo. Di conseguenza le Quaestiones parisienses, espressione della fase cosiddetta «meontologica» della mistica eckhartiana, in cui il Maestro celebra e argomenta il primato dell’«intelligere» quale fondamento dell’essenza divina, non vengono mai discusse nel corso del testo[7. La definizione di «meontologica» – nell’accezione di «ontologicamente negativa» – si deve a E. Zum Brunn (cfr. E. Zum Brunn, Maître Eckhart à Paris: une critique médiévale de l’ontothéologie: les questions parisiennes n. 1 et n. 2 d’Eckhart, Puf, Paris 1984) che con questa espressione si riferisce alla seconda fase della speculazione eckhartiana caratterizzata dall’equazione «Deus est intelligere» e dalla negazione del predicato d’essere all’essenza divina.]. Nella stessa direzione va la proposta degli autori di interpretare il distacco eckhartiano in senso ontologico e non etico, insistendo sull’accezione semantica positiva da attribuire al termine «Abgeschiedenheit», operazione che non convince fino in fondo[8. G. 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