Il momento postbellico offre storicamente quegli spazi di anomia che caratterizzano ogni processo di transizione, spazi in cui si scatenano brutali rese dei conti, selvagge epurazioni e vendette indiscriminate. Portinaro ci porta a riflettere in questo libro (Parte prima, Rese dei conti) sul principio della reciprocità, operante nel comportamento umano della vendetta, e sull’elemento morale di un istinto volto al ristabilimento di un equilibrio infranto dall’aver subito un irreparabile torto.
Nella fenomenologia politica della vendetta proposta qui dall’autore, la rappresaglia appare storicamente come la forma collettiva della resa dei conti militare. Questa forma di “politica della terra bruciata”, accompagnata spesso dal compiacimento ideologico, caratterizza le guerre del mondo antico; con lo sviluppo del diritto internazionale e con lo ius in bello, si ha l’intreccio di giustizia militare e giustizia rivoluzionaria. Le purghe rivoluzionarie diventano così lo strumento dell’istituzionalizzazione moderna della resa dei conti: insita nella rivoluzione è quella predisposizione alla persecuzione, in cui Portinaro vede inaugurare il paradigma democidario che si dispiega nel XX secolo. Alla caduta delle dittature e dei regimi autoritari la pratica dello sradicamento d’intere popolazioni (in ogni sua forma) rappresenta la “specifica forma geopolitica della resa dei conti” (p. 49). Nuove dimensioni del fenomeno, inoltre, appaiono nell’anomia quasi totale in cui s’inseriscono le rese dei conti nel dopoguerra dell’Est europeo, in uno scenario cruento e complesso; in assenza d’istituzioni statali, la resa si è qui protratta nel tempo fino ad assumere forme genocidarie, di fronte all’impotenza di forze internazionali.
La figura dell’epurazione segna, in un tale percorso fenomenologico, il passaggio da una forma arcaica di giustizia a una forma di giustizia politica, in cui il nuovo sistema politico decide le forme di punizione dei torti in modo unilaterale e senza possibilità d’appello. Tuttavia la funzione preventiva dell’epurazione si è rivelata fallimentare, come ha dimostrato la storiografia. Con il passare del tempo la funzione preventiva delle epurazioni amministrative lascia il posto all’esemplarità di pochi procedimenti giudiziari, al dibattito storico e all’istituzionalizzazione della memoria: “Anche se il passato non passa, i tempi di giustizia rallentano” (p. 71). Si ha così una giustizializzazione dei provvedimenti di epurazione: nelle democrazie costituzionali il compito di filtro depurativo è affidato al potere giudiziario, mentre i media diventano teatro delle battaglie epurative attraverso campagne scandalistiche.
Portinaro indaga così il passaggio dalla moderna giustizia politica all’attuale giustizia penale internazionale (Parte seconda, Processi). A segnare un’ambivalenza di fondo agli inizi del XX secolo è il rapporto di reciproca esclusione in cui si pongono diritto penale e diritto internazionale. All’interno dello sviluppo della giustizia penale internazionale e con essa della Corte penale internazionale, i processi di Norimberga e Tokyo segnano un precedente, pur rientrando ancora nella categoria di giustizia politica (attribuendo cioè al vincitore la potestà di giudicare e violando il principio di irretroattività, di imparzialità, di divisione dei poteri e altre garanzie). Con essi entra tuttavia nel diritto internazionale il problema del nesso di crimine internazionale e responsabilità penale individuale. Portinaro illustra la difficoltà, in fase di formazione del diritto internazionale, con cui la categoria del genocidio sia divenuta concetto centrale della criminologa politica. Dopo la stagione dell’amnistia fredda (Wiedergutmachung), con il processo ad Eichmann il crimine della Shoah assume la forma del crimine contro l’umanità (genocidio) e pone il processo giudiziario di fronte a un nuovo rapporto con il passato. Con la distinzione tra criminalità individuale e criminalità di sistema, comando e ingranaggio, la giurisprudenza diventa strumento di battaglia culturale contro le due ideologie fino allora dominanti della neutralizzazione della responsabilità di comando e dell’obbedienza agli ordini ricevuti. Si passa così dalle difficoltà dell’eredità di Norimberga alla difficoltà di inserire la storia in un’organica politica del passato. Le aspettative nei confronti dello strumento giudiziario del processo risultano in questa fase eccessive, superando le possibilità concrete di essere soddisfatte. Con il succedersi nel XXI secolo di processi tardivi ci troviamo, secondo Portinaro, di fronte alla “protesi di una cultura della memoria ossessionata dallo spettro del proprio decadimento” (p. 103).
La violazione su larga scala dei diritti umani, che dagli anni ’90 a oggi segna la storia dei crimini contro l’umanità, ha imposto l’istituzione crescente di tribunali penali internazionali, ma l’aspettativa collettiva di istituirli al fine del contenimento della macrocriminalità politica, ha riacceso il dibattito sulla legittimità, legalità ed efficacia della giustizia penale internazionale. Ritorna la sindrome di Norimberga (vittoria dei vincitori), con la “difficoltà anche per i tribunali internazionali di sottrarsi alle pressioni e ai ricatti della parte risultata vincente” (p. 113). I limiti dello strumento giudiziario nella resa dei conti con il passato emergono poi chiaramente con la criminalità sistemica. E ancora, le aspettative che alimentano le transizioni e che ripetono storicamente lo schema del desiderio di punizione dei colpevoli, di riconciliazione, di reintegrazione sociale delle vittime, non trovano una completa soddisfazione.
L’altra faccia della giustizia politica è l’amnistia, che rappresenta la palese ammissione dell’impotenza del diritto: con essa ci s’impone un patto reciproco di oblio dei torti passati e si elude il problema della responsabilità decidendo reciprocamente di non avvalersi dei mezzi concessi dalla legge (Parte Terza, Amnistie). Con il comando di non ricordare il male (me mnesikakein), dall’Antichità al moderno l’amnistia è l’imposizione reciproca di non politicizzare la memoria. Legata a un vincitore, compromesso in ragione del suo stesso interesse a cancellare la memoria dei suoi crimini, una tale politica dell’oblio trova difficile attuazione in un clima di conflitti globali.
Interessante il confronto di Portinaro con il paradigma della riconciliazione: essa oppone a vendetta e processi la politica delle riparazioni, apparsa in forme arcaiche e moralizzate, nella dimensione materiale e simbolica, discriminando ora alcune vittime e ora dimenticandone altre (Parte quarta. Riconciliazione). Con le riparazioni per l’Olocausto ha inizio nel 1989 il processo di universalizzazione delle Wiedergutmachungen, dell’internazionalizzazione della politica delle riparazioni, da cui si apre il dibattito filosofico-giuridico sulle categorie di restituzione, compensazione e riconoscimento simbolico. Difficile non pensare, avverte qui Portinaro, a quanti casi emergano, di fronte al divieto di retroattività del diritto penale, in cui resta frustrata la domanda di soddisfazione, anche simbolica, di crimini contro l’umanità.
Appare chiaro come i tribunali “non siano in condizione di venire a capo di quella dimensione collettiva della colpa che inevitabilmente inerisce alla macrocriminalità politica” (p. 181): è questo il grande limite dell’elaborazione giudiziaria del passato, di cui questo libro ci fornisce una prova ampiamente documentata. Di fronte a quest’aporia cresce l’esigenza di mirare alla ricostruzione dei legami sociali attraverso un contesto di misure di interventi più ampi. Di qui nasce il paradigma della transitional justice (commissioni verità e riconciliazione), segnando il passaggio dal modello di giustizia retributiva e di verità processuale a un modello di giustizia riparatrice (restorative justice) e verità condivisa. Ma attenzione, qui il discorso pubblico, il riferimento alla vittima come persona e la narrazione corale degli eventi, giocano un ruolo centrale. Punti di forza all’interno di una cultura condivisa, essi si mostrano tuttavia fortemente problematici di fronte al rischio di strumentalizzazione del consenso e delle pratiche discorsive, come anche di fronte all’incomunicabilità interculturale. Ma ancor più profondamente, il modello della riconciliazione opera su un terreno comune di diritto, economia e religione. Pur accolto spesso come progresso morale, di fronte a tale paradigma Portinaro non nasconde una fondamentale preoccupazione: quella del ritorno all’arcaico, alla problematica confusione tra gli ambiti della giustizia. Nello spazio della delegittimazione attuale del diritto, la posta del futuro si gioca allora o in questo regresso, oppure nell’elaborazione di un nuovo paradigma che integri questi diversi momenti nel quadro istituzionale di stabilizzazione postbellica della condivisione di culture eterogenee. Dopo i risarcimenti materiali e il ristabilimento della verità, nel quadro di quest’indagine assume sempre maggiore attenzione il lavoro sulla memoria. E con essa, avanza il rischio delle sue strumentalizzazioni, nelle tre forme individuate da Ricoeur della censura, della manipolazione e della subdola imposizione a cui è esposta la memoria di una mente collettiva.
La memoria diventa la forma preventiva per scongiurare il futuro riemergere del rimorso e del rimosso. Il nostro presente sembra così conteso tra due futuri, che sono al tempo stesso due figure in cui la memoria può prendere forma. La prima è la forma di una memoria cosmopolitica, attraverso la sua cura nel discorso, nel dialogo e nella comunicazione: “ma fino a che punto si può parlare di cosmopolitizzazione della memoria?” (p. 202). Resta la seconda forma, la memoria vendicatrice: “a governare le nostre politiche del passato sono ora le Eumenidi della memoria” (Ibid.).
Torna il terrore della vendetta, e l’esigenza di escogitare ancora una volta una strategia sedativa, una prevenzione, per questo grande potenziale esplosivo. Difficile non condividere il tono di radicale realismo e di profonda preoccupazione di Pier Paolo Portinaro, in un presente situato al tramonto di un’intera parabola storica, filosofica e giuridica – che ha visto nel binomio colpa e memoria le più grandi elaborazioni della cultura occidentale – ma che è posto sempre ancora di fronte a nuove forme di conti da rendere o di atroci rese dei conti. La politica del passato resta così stretta nella morsa di un’intrinseca aporia: quella di declinarsi in una iperpolitica del passato, facendo i conti con esso senza mai chiuderli, o in una antipolitica, chiudendo i conti con il passato senza averli fatti. Il dubbio che si coglie tangibile tra le righe di questo libro è che dietro la veste etico-morale (il moral-frame) delle attuali relazioni internazionali si celi la grande illusione della mente globale, si celi cioè la “grande ipocrisia della globalizzazione” (p. 210).
Fantasia, Francesca."Pier Paolo Portinaro, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 224.". PólemosIX. 1. (2016): 259-263https://www.rivistapolemos.it/pier-paolo-portinaro-i-conti-con-il-passato-vendetta-amnistia-giustizia-feltrinelli-milano-2011-pp-224/?lang=it
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Fantasia, F.(2016). "Pier Paolo Portinaro, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 224.". PólemosIX. (1). 259-263https://www.rivistapolemos.it/pier-paolo-portinaro-i-conti-con-il-passato-vendetta-amnistia-giustizia-feltrinelli-milano-2011-pp-224/?lang=it
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Fantasia, Francesca.2016. "Pier Paolo Portinaro, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 224.". PólemosIX (1). Donzelli Editore: 259-263. https://www.rivistapolemos.it/pier-paolo-portinaro-i-conti-con-il-passato-vendetta-amnistia-giustizia-feltrinelli-milano-2011-pp-224/?lang=it
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TY - JOUR
A1 - Fantasia, Francesca
PY - 2016
TI - Pier Paolo Portinaro, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 224.
JO - Plemos
SN - 9788899871031/2281-9517
AB - Il momento postbellico offre storicamente quegli spazi di anomia che caratterizzano ogni processo di transizione, spazi in cui si scatenano brutali rese dei conti, selvagge epurazioni e vendette indiscriminate. Portinaro ci porta a riflettere in questo libro (Parte prima, Rese dei conti) sul principio della reciprocità, operante nel comportamento umano della vendetta, e sull’elemento morale di un istinto volto al ristabilimento di un equilibrio infranto dall'aver subito un irreparabile torto.
Nella fenomenologia politica della vendetta proposta qui dall’autore, la rappresaglia appare storicamente come la forma collettiva della resa dei conti militare. Questa forma di “politica della terra bruciata”, accompagnata spesso dal compiacimento ideologico, caratterizza le guerre del mondo antico; con lo sviluppo del diritto internazionale e con lo ius in bello, si ha l’intreccio di giustizia militare e giustizia rivoluzionaria. Le purghe rivoluzionarie diventano così lo strumento dell’istituzionalizzazione moderna della resa dei conti: insita nella rivoluzione è quella predisposizione alla persecuzione, in cui Portinaro vede inaugurare il paradigma democidario che si dispiega nel XX secolo. Alla caduta delle dittature e dei regimi autoritari la pratica dello sradicamento d’intere popolazioni (in ogni sua forma) rappresenta la “specifica forma geopolitica della resa dei conti” (p. 49). Nuove dimensioni del fenomeno, inoltre, appaiono nell’anomia quasi totale in cui s’inseriscono le rese dei conti nel dopoguerra dell’Est europeo, in uno scenario cruento e complesso; in assenza d’istituzioni statali, la resa si è qui protratta nel tempo fino ad assumere forme genocidarie, di fronte all’impotenza di forze internazionali.
La figura dell’epurazione segna, in un tale percorso fenomenologico, il passaggio da una forma arcaica di giustizia a una forma di giustizia politica, in cui il nuovo sistema politico decide le forme di punizione dei torti in modo unilaterale e senza possibilità d’appello. Tuttavia la funzione preventiva dell’epurazione si è rivelata fallimentare, come ha dimostrato la storiografia. Con il passare del tempo la funzione preventiva delle epurazioni amministrative lascia il posto all’esemplarità di pochi procedimenti giudiziari, al dibattito storico e all’istituzionalizzazione della memoria: “Anche se il passato non passa, i tempi di giustizia rallentano” (p. 71). Si ha così una giustizializzazione dei provvedimenti di epurazione: nelle democrazie costituzionali il compito di filtro depurativo è affidato al potere giudiziario, mentre i media diventano teatro delle battaglie epurative attraverso campagne scandalistiche.
Portinaro indaga così il passaggio dalla moderna giustizia politica all’attuale giustizia penale internazionale (Parte seconda, Processi). A segnare un’ambivalenza di fondo agli inizi del XX secolo è il rapporto di reciproca esclusione in cui si pongono diritto penale e diritto internazionale. All’interno dello sviluppo della giustizia penale internazionale e con essa della Corte penale internazionale, i processi di Norimberga e Tokyo segnano un precedente, pur rientrando ancora nella categoria di giustizia politica (attribuendo cioè al vincitore la potestà di giudicare e violando il principio di irretroattività, di imparzialità, di divisione dei poteri e altre garanzie). Con essi entra tuttavia nel diritto internazionale il problema del nesso di crimine internazionale e responsabilità penale individuale. Portinaro illustra la difficoltà, in fase di formazione del diritto internazionale, con cui la categoria del genocidio sia divenuta concetto centrale della criminologa politica. Dopo la stagione dell’amnistia fredda (Wiedergutmachung), con il processo ad Eichmann il crimine della Shoah assume la forma del crimine contro l’umanità (genocidio) e pone il processo giudiziario di fronte a un nuovo rapporto con il passato. Con la distinzione tra criminalità individuale e criminalità di sistema, comando e ingranaggio, la giurisprudenza diventa strumento di battaglia culturale contro le due ideologie fino allora dominanti della neutralizzazione della responsabilità di comando e dell’obbedienza agli ordini ricevuti. Si passa così dalle difficoltà dell’eredità di Norimberga alla difficoltà di inserire la storia in un’organica politica del passato. Le aspettative nei confronti dello strumento giudiziario del processo risultano in questa fase eccessive, superando le possibilità concrete di essere soddisfatte. Con il succedersi nel XXI secolo di processi tardivi ci troviamo, secondo Portinaro, di fronte alla “protesi di una cultura della memoria ossessionata dallo spettro del proprio decadimento” (p. 103).
La violazione su larga scala dei diritti umani, che dagli anni ’90 a oggi segna la storia dei crimini contro l’umanità, ha imposto l’istituzione crescente di tribunali penali internazionali, ma l’aspettativa collettiva di istituirli al fine del contenimento della macrocriminalità politica, ha riacceso il dibattito sulla legittimità, legalità ed efficacia della giustizia penale internazionale. Ritorna la sindrome di Norimberga (vittoria dei vincitori), con la “difficoltà anche per i tribunali internazionali di sottrarsi alle pressioni e ai ricatti della parte risultata vincente” (p. 113). I limiti dello strumento giudiziario nella resa dei conti con il passato emergono poi chiaramente con la criminalità sistemica. E ancora, le aspettative che alimentano le transizioni e che ripetono storicamente lo schema del desiderio di punizione dei colpevoli, di riconciliazione, di reintegrazione sociale delle vittime, non trovano una completa soddisfazione.
L’altra faccia della giustizia politica è l’amnistia, che rappresenta la palese ammissione dell’impotenza del diritto: con essa ci s’impone un patto reciproco di oblio dei torti passati e si elude il problema della responsabilità decidendo reciprocamente di non avvalersi dei mezzi concessi dalla legge (Parte Terza, Amnistie). Con il comando di non ricordare il male (me mnesikakein), dall’Antichità al moderno l’amnistia è l’imposizione reciproca di non politicizzare la memoria. Legata a un vincitore, compromesso in ragione del suo stesso interesse a cancellare la memoria dei suoi crimini, una tale politica dell’oblio trova difficile attuazione in un clima di conflitti globali.
Interessante il confronto di Portinaro con il paradigma della riconciliazione: essa oppone a vendetta e processi la politica delle riparazioni, apparsa in forme arcaiche e moralizzate, nella dimensione materiale e simbolica, discriminando ora alcune vittime e ora dimenticandone altre (Parte quarta. Riconciliazione). Con le riparazioni per l’Olocausto ha inizio nel 1989 il processo di universalizzazione delle Wiedergutmachungen, dell’internazionalizzazione della politica delle riparazioni, da cui si apre il dibattito filosofico-giuridico sulle categorie di restituzione, compensazione e riconoscimento simbolico. Difficile non pensare, avverte qui Portinaro, a quanti casi emergano, di fronte al divieto di retroattività del diritto penale, in cui resta frustrata la domanda di soddisfazione, anche simbolica, di crimini contro l’umanità.
Appare chiaro come i tribunali “non siano in condizione di venire a capo di quella dimensione collettiva della colpa che inevitabilmente inerisce alla macrocriminalità politica” (p. 181): è questo il grande limite dell’elaborazione giudiziaria del passato, di cui questo libro ci fornisce una prova ampiamente documentata. Di fronte a quest’aporia cresce l’esigenza di mirare alla ricostruzione dei legami sociali attraverso un contesto di misure di interventi più ampi. Di qui nasce il paradigma della transitional justice (commissioni verità e riconciliazione), segnando il passaggio dal modello di giustizia retributiva e di verità processuale a un modello di giustizia riparatrice (restorative justice) e verità condivisa. Ma attenzione, qui il discorso pubblico, il riferimento alla vittima come persona e la narrazione corale degli eventi, giocano un ruolo centrale. Punti di forza all’interno di una cultura condivisa, essi si mostrano tuttavia fortemente problematici di fronte al rischio di strumentalizzazione del consenso e delle pratiche discorsive, come anche di fronte all’incomunicabilità interculturale. Ma ancor più profondamente, il modello della riconciliazione opera su un terreno comune di diritto, economia e religione. Pur accolto spesso come progresso morale, di fronte a tale paradigma Portinaro non nasconde una fondamentale preoccupazione: quella del ritorno all’arcaico, alla problematica confusione tra gli ambiti della giustizia. Nello spazio della delegittimazione attuale del diritto, la posta del futuro si gioca allora o in questo regresso, oppure nell’elaborazione di un nuovo paradigma che integri questi diversi momenti nel quadro istituzionale di stabilizzazione postbellica della condivisione di culture eterogenee. Dopo i risarcimenti materiali e il ristabilimento della verità, nel quadro di quest’indagine assume sempre maggiore attenzione il lavoro sulla memoria. E con essa, avanza il rischio delle sue strumentalizzazioni, nelle tre forme individuate da Ricoeur della censura, della manipolazione e della subdola imposizione a cui è esposta la memoria di una mente collettiva.
La memoria diventa la forma preventiva per scongiurare il futuro riemergere del rimorso e del rimosso. Il nostro presente sembra così conteso tra due futuri, che sono al tempo stesso due figure in cui la memoria può prendere forma. La prima è la forma di una memoria cosmopolitica, attraverso la sua cura nel discorso, nel dialogo e nella comunicazione: “ma fino a che punto si può parlare di cosmopolitizzazione della memoria?” (p. 202). Resta la seconda forma, la memoria vendicatrice: “a governare le nostre politiche del passato sono ora le Eumenidi della memoria” (Ibid.).
Torna il terrore della vendetta, e l’esigenza di escogitare ancora una volta una strategia sedativa, una prevenzione, per questo grande potenziale esplosivo. Difficile non condividere il tono di radicale realismo e di profonda preoccupazione di Pier Paolo Portinaro, in un presente situato al tramonto di un’intera parabola storica, filosofica e giuridica – che ha visto nel binomio colpa e memoria le più grandi elaborazioni della cultura occidentale – ma che è posto sempre ancora di fronte a nuove forme di conti da rendere o di atroci rese dei conti. La politica del passato resta così stretta nella morsa di un’intrinseca aporia: quella di declinarsi in una iperpolitica del passato, facendo i conti con esso senza mai chiuderli, o in una antipolitica, chiudendo i conti con il passato senza averli fatti. Il dubbio che si coglie tangibile tra le righe di questo libro è che dietro la veste etico-morale (il moral-frame) delle attuali relazioni internazionali si celi la grande illusione della mente globale, si celi cioè la “grande ipocrisia della globalizzazione” (p. 210).
SE - 1/2016
DA - 2016
KW - filosofia politica KW - teoria della giustizia KW - Pier Paolo Portinaro
UR - https://www.rivistapolemos.it/pier-paolo-portinaro-i-conti-con-il-passato-vendetta-amnistia-giustizia-feltrinelli-milano-2011-pp-224/?lang=it
DO - 10.19280/P2016-0013
PB - Donzelli Editore
LA - it
SP - 259
EP - 263
ER -
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author = {Francesca Fantasia},
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publisher = {Donzelli Editore},
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Nella fenomenologia politica della vendetta proposta qui dall’autore, la rappresaglia appare storicamente come la forma collettiva della resa dei conti militare. Questa forma di “politica della terra bruciata”, accompagnata spesso dal compiacimento ideologico, caratterizza le guerre del mondo antico; con lo sviluppo del diritto internazionale e con lo ius in bello, si ha l’intreccio di giustizia militare e giustizia rivoluzionaria. Le purghe rivoluzionarie diventano così lo strumento dell’istituzionalizzazione moderna della resa dei conti: insita nella rivoluzione è quella predisposizione alla persecuzione, in cui Portinaro vede inaugurare il paradigma democidario che si dispiega nel XX secolo. Alla caduta delle dittature e dei regimi autoritari la pratica dello sradicamento d’intere popolazioni (in ogni sua forma) rappresenta la “specifica forma geopolitica della resa dei conti” (p. 49). Nuove dimensioni del fenomeno, inoltre, appaiono nell’anomia quasi totale in cui s’inseriscono le rese dei conti nel dopoguerra dell’Est europeo, in uno scenario cruento e complesso; in assenza d’istituzioni statali, la resa si è qui protratta nel tempo fino ad assumere forme genocidarie, di fronte all’impotenza di forze internazionali.
La figura dell’epurazione segna, in un tale percorso fenomenologico, il passaggio da una forma arcaica di giustizia a una forma di giustizia politica, in cui il nuovo sistema politico decide le forme di punizione dei torti in modo unilaterale e senza possibilità d’appello. Tuttavia la funzione preventiva dell’epurazione si è rivelata fallimentare, come ha dimostrato la storiografia. Con il passare del tempo la funzione preventiva delle epurazioni amministrative lascia il posto all’esemplarità di pochi procedimenti giudiziari, al dibattito storico e all’istituzionalizzazione della memoria: “Anche se il passato non passa, i tempi di giustizia rallentano” (p. 71). Si ha così una giustizializzazione dei provvedimenti di epurazione: nelle democrazie costituzionali il compito di filtro depurativo è affidato al potere giudiziario, mentre i media diventano teatro delle battaglie epurative attraverso campagne scandalistiche.
Portinaro indaga così il passaggio dalla moderna giustizia politica all’attuale giustizia penale internazionale (Parte seconda, Processi). A segnare un’ambivalenza di fondo agli inizi del XX secolo è il rapporto di reciproca esclusione in cui si pongono diritto penale e diritto internazionale. All’interno dello sviluppo della giustizia penale internazionale e con essa della Corte penale internazionale, i processi di Norimberga e Tokyo segnano un precedente, pur rientrando ancora nella categoria di giustizia politica (attribuendo cioè al vincitore la potestà di giudicare e violando il principio di irretroattività, di imparzialità, di divisione dei poteri e altre garanzie). Con essi entra tuttavia nel diritto internazionale il problema del nesso di crimine internazionale e responsabilità penale individuale. Portinaro illustra la difficoltà, in fase di formazione del diritto internazionale, con cui la categoria del genocidio sia divenuta concetto centrale della criminologa politica. Dopo la stagione dell’amnistia fredda (Wiedergutmachung), con il processo ad Eichmann il crimine della Shoah assume la forma del crimine contro l’umanità (genocidio) e pone il processo giudiziario di fronte a un nuovo rapporto con il passato. Con la distinzione tra criminalità individuale e criminalità di sistema, comando e ingranaggio, la giurisprudenza diventa strumento di battaglia culturale contro le due ideologie fino allora dominanti della neutralizzazione della responsabilità di comando e dell’obbedienza agli ordini ricevuti. Si passa così dalle difficoltà dell’eredità di Norimberga alla difficoltà di inserire la storia in un’organica politica del passato. Le aspettative nei confronti dello strumento giudiziario del processo risultano in questa fase eccessive, superando le possibilità concrete di essere soddisfatte. Con il succedersi nel XXI secolo di processi tardivi ci troviamo, secondo Portinaro, di fronte alla “protesi di una cultura della memoria ossessionata dallo spettro del proprio decadimento” (p. 103).
La violazione su larga scala dei diritti umani, che dagli anni ’90 a oggi segna la storia dei crimini contro l’umanità, ha imposto l’istituzione crescente di tribunali penali internazionali, ma l’aspettativa collettiva di istituirli al fine del contenimento della macrocriminalità politica, ha riacceso il dibattito sulla legittimità, legalità ed efficacia della giustizia penale internazionale. Ritorna la sindrome di Norimberga (vittoria dei vincitori), con la “difficoltà anche per i tribunali internazionali di sottrarsi alle pressioni e ai ricatti della parte risultata vincente” (p. 113). I limiti dello strumento giudiziario nella resa dei conti con il passato emergono poi chiaramente con la criminalità sistemica. E ancora, le aspettative che alimentano le transizioni e che ripetono storicamente lo schema del desiderio di punizione dei colpevoli, di riconciliazione, di reintegrazione sociale delle vittime, non trovano una completa soddisfazione.
L’altra faccia della giustizia politica è l’amnistia, che rappresenta la palese ammissione dell’impotenza del diritto: con essa ci s’impone un patto reciproco di oblio dei torti passati e si elude il problema della responsabilità decidendo reciprocamente di non avvalersi dei mezzi concessi dalla legge (Parte Terza, Amnistie). Con il comando di non ricordare il male (me mnesikakein), dall’Antichità al moderno l’amnistia è l’imposizione reciproca di non politicizzare la memoria. Legata a un vincitore, compromesso in ragione del suo stesso interesse a cancellare la memoria dei suoi crimini, una tale politica dell’oblio trova difficile attuazione in un clima di conflitti globali.
Interessante il confronto di Portinaro con il paradigma della riconciliazione: essa oppone a vendetta e processi la politica delle riparazioni, apparsa in forme arcaiche e moralizzate, nella dimensione materiale e simbolica, discriminando ora alcune vittime e ora dimenticandone altre (Parte quarta. Riconciliazione). Con le riparazioni per l’Olocausto ha inizio nel 1989 il processo di universalizzazione delle Wiedergutmachungen, dell’internazionalizzazione della politica delle riparazioni, da cui si apre il dibattito filosofico-giuridico sulle categorie di restituzione, compensazione e riconoscimento simbolico. Difficile non pensare, avverte qui Portinaro, a quanti casi emergano, di fronte al divieto di retroattività del diritto penale, in cui resta frustrata la domanda di soddisfazione, anche simbolica, di crimini contro l’umanità.
Appare chiaro come i tribunali “non siano in condizione di venire a capo di quella dimensione collettiva della colpa che inevitabilmente inerisce alla macrocriminalità politica” (p. 181): è questo il grande limite dell’elaborazione giudiziaria del passato, di cui questo libro ci fornisce una prova ampiamente documentata. Di fronte a quest’aporia cresce l’esigenza di mirare alla ricostruzione dei legami sociali attraverso un contesto di misure di interventi più ampi. Di qui nasce il paradigma della transitional justice (commissioni verità e riconciliazione), segnando il passaggio dal modello di giustizia retributiva e di verità processuale a un modello di giustizia riparatrice (restorative justice) e verità condivisa. Ma attenzione, qui il discorso pubblico, il riferimento alla vittima come persona e la narrazione corale degli eventi, giocano un ruolo centrale. Punti di forza all’interno di una cultura condivisa, essi si mostrano tuttavia fortemente problematici di fronte al rischio di strumentalizzazione del consenso e delle pratiche discorsive, come anche di fronte all’incomunicabilità interculturale. Ma ancor più profondamente, il modello della riconciliazione opera su un terreno comune di diritto, economia e religione. Pur accolto spesso come progresso morale, di fronte a tale paradigma Portinaro non nasconde una fondamentale preoccupazione: quella del ritorno all’arcaico, alla problematica confusione tra gli ambiti della giustizia. Nello spazio della delegittimazione attuale del diritto, la posta del futuro si gioca allora o in questo regresso, oppure nell’elaborazione di un nuovo paradigma che integri questi diversi momenti nel quadro istituzionale di stabilizzazione postbellica della condivisione di culture eterogenee. Dopo i risarcimenti materiali e il ristabilimento della verità, nel quadro di quest’indagine assume sempre maggiore attenzione il lavoro sulla memoria. E con essa, avanza il rischio delle sue strumentalizzazioni, nelle tre forme individuate da Ricoeur della censura, della manipolazione e della subdola imposizione a cui è esposta la memoria di una mente collettiva.
La memoria diventa la forma preventiva per scongiurare il futuro riemergere del rimorso e del rimosso. Il nostro presente sembra così conteso tra due futuri, che sono al tempo stesso due figure in cui la memoria può prendere forma. La prima è la forma di una memoria cosmopolitica, attraverso la sua cura nel discorso, nel dialogo e nella comunicazione: “ma fino a che punto si può parlare di cosmopolitizzazione della memoria?” (p. 202). Resta la seconda forma, la memoria vendicatrice: “a governare le nostre politiche del passato sono ora le Eumenidi della memoria” (Ibid.).
Torna il terrore della vendetta, e l’esigenza di escogitare ancora una volta una strategia sedativa, una prevenzione, per questo grande potenziale esplosivo. Difficile non condividere il tono di radicale realismo e di profonda preoccupazione di Pier Paolo Portinaro, in un presente situato al tramonto di un’intera parabola storica, filosofica e giuridica – che ha visto nel binomio colpa e memoria le più grandi elaborazioni della cultura occidentale – ma che è posto sempre ancora di fronte a nuove forme di conti da rendere o di atroci rese dei conti. La politica del passato resta così stretta nella morsa di un’intrinseca aporia: quella di declinarsi in una iperpolitica del passato, facendo i conti con esso senza mai chiuderli, o in una antipolitica, chiudendo i conti con il passato senza averli fatti. Il dubbio che si coglie tangibile tra le righe di questo libro è che dietro la veste etico-morale (il moral-frame) delle attuali relazioni internazionali si celi la grande illusione della mente globale, si celi cioè la “grande ipocrisia della globalizzazione” (p. 210).}
journal = {Pólemos},
number = {1/2016},
doi = {10.19280/P2016-0013},
URL = {https://www.rivistapolemos.it/pier-paolo-portinaro-i-conti-con-il-passato-vendetta-amnistia-giustizia-feltrinelli-milano-2011-pp-224/?lang=it},
keywords = {filosofia politica; teoria della giustizia; Pier Paolo Portinaro.},
pages = {259-263},
language = {it}
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