In una delle conferenze raccolte in Holzwege, Heidegger ha definito il moderno come l’epoca dell’immagine del mondo. Se è possibile parlare genericamente di un’immagine del mondo antico e del mondo medioevale, si comprende la discontinuità istituita dal moderno se si riconosce come sia il mondo stesso a costituirsi come immagine. Certo, per Heidegger già nell’eidos platonico si annuncia la presa del vedere sull’essere, ma solo con il tradursi della sostanza (hypokeimenon, substantia) in soggetto e del mondo in oggetto (rappresentazione, Vorstellung) il divenire immagine del mondo si dispiega in tutta la sua pienezza.
Questa interpretazione dell’essere dell’ente, com’è noto, è la condizione di possibilità della tecnica. Processo inarrestabile, secondo Heidegger, al punto da mutare radicalmente abiti e pratiche di pensiero. L’orizzonte dello studioso, per dire di uno spazio che riguarda direttamente gli autori di questo testo, si riduce sempre più a quello del ricercatore, senza dubbio più specializzato e competente su un determinato campo del sapere, ma spesso incapace di abbracciare con uno sguardo ciò che è in gioco nella sua ricerca.
Pur riconoscendo la radicalità e la forza teoretica del gesto heideggeriano, e talvolta entrando in discussione più o meno esplicita con il filosofo di Essere e Tempo, i contributi che presentiamo nella forma di un palinsesto cercano più modestamente di esplorare le stratificazioni di senso del concetto di immagine, senza affidarle a un disegno destinale o alle aporie intrinseche a una storia delle idee.
Diversi i punti di partenza, che si dispongono intorno alla costellazione orientata dal temine tedesco che traduce la nostra nozione di immagine, Bild. Nella maggior parte dei contributi che si muovono a partire dalla lingua di Kant ed Hegel (ma non solo), si ritroverà facilmente un rinvio a questa radice etimologica, declinata in sostantivi in cui si nostra il genio della lingua tedesca: Urbild, Gebild, Abbildung, Bildung, Einbildungskraft, ecc.
Nella prima sezione, il saggio di chi scrive ricerca in Walter Benjamin e nella sua interpretazione dell’immagine (del «fare immagine» come forma, configurazione) una tradizione altra da quella heideggeriana, sottraendola in particolare alla storia della metafisica della soggettività. Eppure proprio dalla gnoseologia kantiana e fichtiana, dalla filosofia della riflessione, muove il saggio d’apertura. Lo scopo è mostrare come all’interno del processo di costituzione della soggettività (e dell’idealismo) si diano prospettive di una critica intrinseca a quel movimento. Se per i romantici, F. Schlegel e Novalis, la critica è immagine dell’immagine, forma della forma, automovimento dell’opera in se stessa, per Goethe, che Benjamin situa come estremo opposto rispetto a quelli, l’opera d’arte non è interrogabile, ma è un’immagine in cui vengono rifratti gli archetipi (Urbilder). Nella tensione inconciliabile tra queste tesi si guadagna però «nella sua purezza» la possibilità di porre in questione l’essenza della critica, il suo eidos, altrimenti limitato e parziale se posto come problema metafisico o di storia delle idee.
Se la critica insieme provoca ed è provocata dallo scoccare dell’immagine, il «balenare dell’aspetto» (Wittgenstein), il principio della somiglianza, è tematizzato dal saggio di Paolo Gabrielli, sempre a partire dall’opera di Benjamin (Sulla facoltà mimetica). Suo obiettivo è la messa a fuoco delle condizioni di possibilità dell’apparire, del sorgere di «qualcosa in quanto qualcosa», dell’identità nella differenza e della differenza nell’identità. Secondo Gabrielli, il gioco dei giochi, che incrocia le ricerche di Wittgenstein circa il «vedere come» («un misto di vedere e di pensare»), si articola nella problematica soglia tra estetica e logica. Soglia in cui operano come medi immaginazione e lingua; e in cui, nella dialettica tra ripetizione e invenzione, «la mimesi può essere la forma del sovvertimento di ciò che è già da sempre sotto i nostri occhi».
La critica come dialettica in condizione di arresto è l’esercizio in cui Paolo Vinci riconosce il centro della meditazione benjaminiana, enfatizzando l’aspetto politico-messianico come antidoto allo storicismo e all’idea di progresso. Il confronto con Baudelaire, per il quale le immagini furono «grande e primitiva passione», e con Marx, attraverso la scoperta della fantasmagoria della merce, è alla base della grande opera incompiuta su Parigi capitale del XIX secolo. Tra i passages, la folla e gli shock percettivi, in un campo di forze in cui è possibile restare sedotti e risucchiati, il poeta e il critico devono trovare il proprio respiro non al riparo ma nello scontro con i ritmi dettati dalla metropoli.
È il punto di partenza di Cristoph Türcke, i cui testi e la cui intervista sono introdotti e curati da Erika Benini. Türcke, già noto in Italia per La società eccitata ed esponente di spicco tra gli eredi della scuola di Francoforte, prosegue la sua diagnosi critica della società contemporanea. Le immagini elettroniche e gli stimoli cui siamo quotidianamente sottoposti riorganizzano la nostra capacità di attenzione in una continua «distrazione concentrata», rischiando di piegare e di addomesticare la capacità critica del pensiero tout court. In L’immagine del sogno, il testo che presentiamo nella sua prima edizione italiana, Türcke richiama l’importanza di Freud per la teoria critica: gli studi sull’origine dei sogni vengono rivalutati a partire dal nesso genealogico tra allucinazione/sogno e pensiero. Se «l’operazione che l’epoca contemporanea svolge è quella di riportare l’allucinazione nello stato di veglia», originariamente il pensiero è proprio il superamento dello stato di allucinazione, e le immagini del sogno hanno la funzione di proteggere più che destabilizzare il soggetto.
Francesca Fantasia cura e introduce invece la rivisitazione del pensiero fichtiano proposta da Cristoph Asmuth. Si tratta di riconsiderare la teoria costruttivista dell’immagine in Fichte riprendendo le ultime stesure della Dottrina della scienza (1810-1814), sempre troppo poco frequentate rispetto alla prima. Partendo dalla definizione di R. Lauth, quella di Fichte si presenterebbe come una dottrina dell’immagine (Bildenlehre) in cui il sapere sarebbe considerato come schema o «immagine dell’assoluto». Nello stesso tempo Asmuth rivendica il valore di filosofia della prassi (o della libertà), che ha da sempre orientato le costruzione teoretiche di Fichte, il quale non nascondeva di voler essere considerato come il filosofo della rivoluzione francese. Se la legge morale è fondamento dell’essere spirituale, la sua realizzazione costituisce il farsi immagine del logos. E ciò sebbene il principio resti compito, o con una chiara eco rousseauiana, perfettibilità (Bildsamkeit). La seconda sezione prova a pensare lo statuto ontologico dell’immagine prendendo le mosse dall’arte contemporanea e dal modo in cui la filosofia comprende se stessa a partire dal concetto o dalla facoltà dell’immaginazione.
Qual è il luogo dell’immagine? Il luogo in cui l’immagine si dà come immagine? Il percorso proposto da Massimo Adinolfi parte dalle tele di Rothko per risalire fino alla prima interrogazione filosofica sull’immagine presente nel Sofista di Platone. Dove però l’immagine è irreggimentata da principio nella strategia platonica che fonderà l’immagine mentale, il cui sguardo condiziona la storia della metafisica fino alla fenomenologia e ai suoi eredi. Paradossalmente l’immagine per potersi presentare in quanto tale ha da fare un lungo percorso per svincolarsi dalla presa del pensiero, presentandosi infine nel suo non esser altro che immagine. Un percorso che nello svuotamento della profondità (prospettiva, rinascimento, barocco) e nell’abrogazione dei diritti spaziali lascia emergere una «superficie poco profonda», o shallow space (non semplicemente piatta). È da quel luogo che si può comprendere ciò che l’arte contemporanea vuole lascar vedere, e ciò al di là della consueta e semplicistica opposizione tra figurativo e astratto, tra schema e forze primordiali. L’immagine appare così proprio nel momento in cui rinuncia ad apparire, a darsi come qualcosa per qualcuno. E ciò in «uno spazio poco profondo, e a mala pena visibile, in cui l’immagine non si è ancora del tutto sollevata dal mondo».
Il saggio di Fabio Gianfrancesco e Tommaso Morawski prende spunto dall’oblio dell’immaginazione evidenziato dall’opera di Hans Blumenberg e dalla ricadute di questa dimenticanza nell’antropologia filosofica. Da questa rimozione Blumenberg però salva l’opera kantiana, permettendo così agli au- tori di ripartire da due esperienze della filosofia contemporanea che hanno ridato voce al problema dello schematismo kantiano. Si tratta di Emilio Garroni e Gilles Deleuze: è certo merito delle loro ricerche l’aver evidenziato il ruolo che il giudizio riflettente della terza critica ha retrospettivamente sul giudizio determinante, liberando l’immaginazione e la sua portata di negazione e inattualità. Gianfrancesco e Morawski qui si confrontano con le tesi
di Paolo Virno sulla centralità del linguaggio (e in particolare sulla particella ‘non’) per noi essere viventi, e con gli studi di Pietro Montani, che di Garroni fu allievo, sul rapporto tra tecnica e immaginazione.
Questo rapporto è al centro anche del lavoro di Mario Pezzella sull’opera di Paul Klee. Compito dell’arte non è più (ammesso che lo sia mai stato) l’imitazione della natura, ché questa si presenta ormai reificata nella figura della merce. Piuttosto, l’arte deve rendere visibile ciò che la tecnica tende a cancellare: la possibilità che a quel destino possa opporsi la chance di un poter essere altrimenti. La risposta all’alienazione e alla tecnica tuttavia non si situa nel retrocedere a uno stadio più originario e incontaminato, ma nella capacità di dialettizzare e incantare le forze e forme seriali che strutturano la contemporaneità. O, come insegna Klee, mostrando nella figura l’atto della figurazione, che è potenza e scoperta di possibili.
L’opera di Wassily Kandinsky analizzata da Alexandre Kojève è al centro del contributo di Sabina Tortorella. Se rappresentare l’inesistente è il compito della pittura, l’analisi del filosofo di origini russe muove da un presupposto apparentemente paradossale, almeno agli occhi di chi è abituato a considerare Kandinsky il maestro dell’astrattismo. Nella ripartizione tra arte astratta e concreta, questi è ritenuto da Kojève l’unico pittore realmente concreto e oggettivo. Se infatti le varie tipologia di arte astratta mantengono un riferimento più o meno forte a un presupposto esterno, nella pittura di Kandinsky questo è totalmente tolto. Al Bello rappresentato dalla sua opera «nulla manca, nulla è stato eliminato in lui, poiché questo – non esistendo al di fuori del quadro – non può esser più ricco e più reale di quanto non lo sia nel quadro o in quanto quadro». Così l’opera di Kandinsky è «pittura totale e assoluta», nella misura in cui «non “rappresenta” un frammento dell’Universo, ma un Universo intero». In questa figura post-storica riemerge lo schema della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, di cui Kojève fu grande interprete e divulgatore: come l’esperienza della coscienza culmina nel sapere assoluto, così l’arte astratta raggiunge la sua pienezza nella pittura concreta e assoluta di Kandinsky.
Nel saggio di Camilla Croce viene ripercorsa criticamente la lettura heideggeriana di Rilke e la sua riconduzione a una metafisica dell’immagine e della presenza, come rovesciamento speculare del platonismo. L’autrice cerca di mostrare come, per sottrarsi al «fare senza immagine» della produzione tecnica, il poeta tedesco trovi una lingua nelle cose che non è soltanto la reazione del cuore, dell’istinto e dell’irrazionale contro la ragione. Né semplicemente l’animalizzazione dell’umano o l’umanizzazione dell’animale. Rilke crede che le cose, ancora prima di divenire oggetti della nostra rappresentazione oggettivante (e dunque immagini), «ci sfiorino, ci riguardino, o che forse ci abbiano sempre già raggiunto, costituendosi come parte essenziale della configurazione stessa della veduta originaria con cui si danno il passato e il futuro». E il dire le cose, le «parole modeste» del poeta, sono un tentativo di salvare il caduco preservandolo nella sua caducità, sottraendolo al suo esser semplicemente presente (Vorhanden). Alla decostruzione dell’immagine della città è dedicato il saggio di Giorgia Bordoni. Sulle tracce del flâneur l’autrice rilegge il pensiero di Nancy e di Der- rida in cerca di un’arte della comunità non più orientata su una gerarchia o su un’architettonica. In La ville au loin, saggio inedito di Nancy, di cui Bordoni anticipa alcuni passaggi della sua traduzione in italiano, la città è ripensata al di là di ogni ossessione comunitaria, al di là di ogni mito fondativo che escluda la figura dell’altro, dello straniero, senza comprenderne il ruolo costitutivo. Città in quest’ottica diviene «luogo in cui ha luogo qualcosa di diverso dal luogo». E delocalizzandosi incessantemente, attraverso la sua storia, essa aprendosi si allontana da sé, in attesa della sua figura sempre a venire.
Nella sezione dedicata ai materiali, infine, introdotte da Diana Del Mastro chiudono il volume alcune immagini di recenti opere di Fernanda Mancina. In queste immagini, ultimo strato del nostro palinsesto, ci si augura che il lettore ritrovi in figura il sedimento dei problemi attraversati. E un invito a ripensare il ruolo dell’immaginazione, senza la quale ogni teoria rischia di irrigidirsi tradendo la sua più propria ragion d’essere, la prassi.
Esporta un file formato BIB per Bebop, BibSonomy, BibTeX, Jumper 2.0, Pybliographer, Qiqqa…
TY - JOUR
A1 - Capasso, Mico
PY - 2014
TI - Palinsesto sull’immagine
JO - Plemos
SN - 9788898697243/2281-9517
AB -
In una delle conferenze raccolte in Holzwege, Heidegger ha definito il moderno come l’epoca dell’immagine del mondo. Se è possibile parlare genericamente di un’immagine del mondo antico e del mondo medioevale, si comprende la discontinuità istituita dal moderno se si riconosce come sia il mondo stesso a costituirsi come immagine. Certo, per Heidegger già nell’eidos platonico si annuncia la presa del vedere sull’essere, ma solo con il tradursi della sostanza (hypokeimenon, substantia) in soggetto e del mondo in oggetto (rappresentazione, Vorstellung) il divenire immagine del mondo si dispiega in tutta la sua pienezza.
Questa interpretazione dell’essere dell’ente, com’è noto, è la condizione di possibilità della tecnica. Processo inarrestabile, secondo Heidegger, al punto da mutare radicalmente abiti e pratiche di pensiero. L’orizzonte dello studioso, per dire di uno spazio che riguarda direttamente gli autori di questo testo, si riduce sempre più a quello del ricercatore, senza dubbio più specializzato e competente su un determinato campo del sapere, ma spesso incapace di abbracciare con uno sguardo ciò che è in gioco nella sua ricerca.
Pur riconoscendo la radicalità e la forza teoretica del gesto heideggeriano, e talvolta entrando in discussione più o meno esplicita con il filosofo di Essere e Tempo, i contributi che presentiamo nella forma di un palinsesto cercano più modestamente di esplorare le stratificazioni di senso del concetto di immagine, senza affidarle a un disegno destinale o alle aporie intrinseche a una storia delle idee.
Diversi i punti di partenza, che si dispongono intorno alla costellazione orientata dal temine tedesco che traduce la nostra nozione di immagine, Bild. Nella maggior parte dei contributi che si muovono a partire dalla lingua di Kant ed Hegel (ma non solo), si ritroverà facilmente un rinvio a questa radice etimologica, declinata in sostantivi in cui si nostra il genio della lingua tedesca: Urbild, Gebild, Abbildung, Bildung, Einbildungskraft, ecc.
Nella prima sezione, il saggio di chi scrive ricerca in Walter Benjamin e nella sua interpretazione dell’immagine (del «fare immagine» come forma, configurazione) una tradizione altra da quella heideggeriana, sottraendola in particolare alla storia della metafisica della soggettività. Eppure proprio dalla gnoseologia kantiana e fichtiana, dalla filosofia della riflessione, muove il saggio d’apertura. Lo scopo è mostrare come all’interno del processo di costituzione della soggettività (e dell’idealismo) si diano prospettive di una critica intrinseca a quel movimento. Se per i romantici, F. Schlegel e Novalis, la critica è immagine dell’immagine, forma della forma, automovimento dell’opera in se stessa, per Goethe, che Benjamin situa come estremo opposto rispetto a quelli, l’opera d’arte non è interrogabile, ma è un’immagine in cui vengono rifratti gli archetipi (Urbilder). Nella tensione inconciliabile tra queste tesi si guadagna però «nella sua purezza» la possibilità di porre in questione l’essenza della critica, il suo eidos, altrimenti limitato e parziale se posto come problema metafisico o di storia delle idee.
Se la critica insieme provoca ed è provocata dallo scoccare dell’immagine, il «balenare dell’aspetto» (Wittgenstein), il principio della somiglianza, è tematizzato dal saggio di Paolo Gabrielli, sempre a partire dall’opera di Benjamin (Sulla facoltà mimetica). Suo obiettivo è la messa a fuoco delle condizioni di possibilità dell’apparire, del sorgere di «qualcosa in quanto qualcosa», dell’identità nella differenza e della differenza nell’identità. Secondo Gabrielli, il gioco dei giochi, che incrocia le ricerche di Wittgenstein circa il «vedere come» («un misto di vedere e di pensare»), si articola nella problematica soglia tra estetica e logica. Soglia in cui operano come medi immaginazione e lingua; e in cui, nella dialettica tra ripetizione e invenzione, «la mimesi può essere la forma del sovvertimento di ciò che è già da sempre sotto i nostri occhi».
La critica come dialettica in condizione di arresto è l’esercizio in cui Paolo Vinci riconosce il centro della meditazione benjaminiana, enfatizzando l’aspetto politico-messianico come antidoto allo storicismo e all’idea di progresso. Il confronto con Baudelaire, per il quale le immagini furono «grande e primitiva passione», e con Marx, attraverso la scoperta della fantasmagoria della merce, è alla base della grande opera incompiuta su Parigi capitale del XIX secolo. Tra i passages, la folla e gli shock percettivi, in un campo di forze in cui è possibile restare sedotti e risucchiati, il poeta e il critico devono trovare il proprio respiro non al riparo ma nello scontro con i ritmi dettati dalla metropoli.
È il punto di partenza di Cristoph Türcke, i cui testi e la cui intervista sono introdotti e curati da Erika Benini. Türcke, già noto in Italia per La società eccitata ed esponente di spicco tra gli eredi della scuola di Francoforte, prosegue la sua diagnosi critica della società contemporanea. Le immagini elettroniche e gli stimoli cui siamo quotidianamente sottoposti riorganizzano la nostra capacità di attenzione in una continua «distrazione concentrata», rischiando di piegare e di addomesticare la capacità critica del pensiero tout court. In L’immagine del sogno, il testo che presentiamo nella sua prima edizione italiana, Türcke richiama l’importanza di Freud per la teoria critica: gli studi sull’origine dei sogni vengono rivalutati a partire dal nesso genealogico tra allucinazione/sogno e pensiero. Se «l’operazione che l’epoca contemporanea svolge è quella di riportare l’allucinazione nello stato di veglia», originariamente il pensiero è proprio il superamento dello stato di allucinazione, e le immagini del sogno hanno la funzione di proteggere più che destabilizzare il soggetto.
Francesca Fantasia cura e introduce invece la rivisitazione del pensiero fichtiano proposta da Cristoph Asmuth. Si tratta di riconsiderare la teoria costruttivista dell’immagine in Fichte riprendendo le ultime stesure della Dottrina della scienza (1810-1814), sempre troppo poco frequentate rispetto alla prima. Partendo dalla definizione di R. Lauth, quella di Fichte si presenterebbe come una dottrina dell’immagine (Bildenlehre) in cui il sapere sarebbe considerato come schema o «immagine dell’assoluto». Nello stesso tempo Asmuth rivendica il valore di filosofia della prassi (o della libertà), che ha da sempre orientato le costruzione teoretiche di Fichte, il quale non nascondeva di voler essere considerato come il filosofo della rivoluzione francese. Se la legge morale è fondamento dell’essere spirituale, la sua realizzazione costituisce il farsi immagine del logos. E ciò sebbene il principio resti compito, o con una chiara eco rousseauiana, perfettibilità (Bildsamkeit).
La seconda sezione prova a pensare lo statuto ontologico dell’immagine prendendo le mosse dall’arte contemporanea e dal modo in cui la filosofia comprende se stessa a partire dal concetto o dalla facoltà dell’immaginazione.
Qual è il luogo dell’immagine? Il luogo in cui l’immagine si dà come immagine? Il percorso proposto da Massimo Adinolfi parte dalle tele di Rothko per risalire fino alla prima interrogazione filosofica sull’immagine presente nel Sofista di Platone. Dove però l’immagine è irreggimentata da principio nella strategia platonica che fonderà l’immagine mentale, il cui sguardo condiziona la storia della metafisica fino alla fenomenologia e ai suoi eredi. Paradossalmente l’immagine per potersi presentare in quanto tale ha da fare un lungo percorso per svincolarsi dalla presa del pensiero, presentandosi infine nel suo non esser altro che immagine. Un percorso che nello svuotamento della profondità (prospettiva, rinascimento, barocco) e nell’abrogazione dei diritti spaziali lascia emergere una «superficie poco profonda», o shallow space (non semplicemente piatta). È da quel luogo che si può comprendere ciò che l’arte contemporanea vuole lascar vedere, e ciò al di là della consueta e semplicistica opposizione tra figurativo e astratto, tra schema e forze primordiali. L’immagine appare così proprio nel momento in cui rinuncia ad apparire, a darsi come qualcosa per qualcuno. E ciò in «uno spazio poco profondo, e a mala pena visibile, in cui l’immagine non si è ancora del tutto sollevata dal mondo».
Il saggio di Fabio Gianfrancesco e Tommaso Morawski prende spunto dall’oblio dell’immaginazione evidenziato dall’opera di Hans Blumenberg e dalla ricadute di questa dimenticanza nell’antropologia filosofica. Da questa rimozione Blumenberg però salva l’opera kantiana, permettendo così agli au- tori di ripartire da due esperienze della filosofia contemporanea che hanno ridato voce al problema dello schematismo kantiano. Si tratta di Emilio Garroni e Gilles Deleuze: è certo merito delle loro ricerche l’aver evidenziato il ruolo che il giudizio riflettente della terza critica ha retrospettivamente sul giudizio determinante, liberando l’immaginazione e la sua portata di negazione e inattualità. Gianfrancesco e Morawski qui si confrontano con le tesi
di Paolo Virno sulla centralità del linguaggio (e in particolare sulla particella ‘non’) per noi essere viventi, e con gli studi di Pietro Montani, che di Garroni fu allievo, sul rapporto tra tecnica e immaginazione.
Questo rapporto è al centro anche del lavoro di Mario Pezzella sull’opera di Paul Klee. Compito dell’arte non è più (ammesso che lo sia mai stato) l’imitazione della natura, ché questa si presenta ormai reificata nella figura della merce. Piuttosto, l’arte deve rendere visibile ciò che la tecnica tende a cancellare: la possibilità che a quel destino possa opporsi la chance di un poter essere altrimenti. La risposta all’alienazione e alla tecnica tuttavia non si situa nel retrocedere a uno stadio più originario e incontaminato, ma nella capacità di dialettizzare e incantare le forze e forme seriali che strutturano la contemporaneità. O, come insegna Klee, mostrando nella figura l’atto della figurazione, che è potenza e scoperta di possibili.
L’opera di Wassily Kandinsky analizzata da Alexandre Kojève è al centro del contributo di Sabina Tortorella. Se rappresentare l’inesistente è il compito della pittura, l’analisi del filosofo di origini russe muove da un presupposto apparentemente paradossale, almeno agli occhi di chi è abituato a considerare Kandinsky il maestro dell’astrattismo. Nella ripartizione tra arte astratta e concreta, questi è ritenuto da Kojève l’unico pittore realmente concreto e oggettivo. Se infatti le varie tipologia di arte astratta mantengono un riferimento più o meno forte a un presupposto esterno, nella pittura di Kandinsky questo è totalmente tolto. Al Bello rappresentato dalla sua opera «nulla manca, nulla è stato eliminato in lui, poiché questo – non esistendo al di fuori del quadro – non può esser più ricco e più reale di quanto non lo sia nel quadro o in quanto quadro». Così l’opera di Kandinsky è «pittura totale e assoluta», nella misura in cui «non “rappresenta” un frammento dell’Universo, ma un Universo intero». In questa figura post-storica riemerge lo schema della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, di cui Kojève fu grande interprete e divulgatore: come l’esperienza della coscienza culmina nel sapere assoluto, così l’arte astratta raggiunge la sua pienezza nella pittura concreta e assoluta di Kandinsky.
Nel saggio di Camilla Croce viene ripercorsa criticamente la lettura heideggeriana di Rilke e la sua riconduzione a una metafisica dell’immagine e della presenza, come rovesciamento speculare del platonismo. L’autrice cerca di mostrare come, per sottrarsi al «fare senza immagine» della produzione tecnica, il poeta tedesco trovi una lingua nelle cose che non è soltanto la reazione del cuore, dell’istinto e dell’irrazionale contro la ragione. Né semplicemente l’animalizzazione dell’umano o l’umanizzazione dell’animale. Rilke crede che le cose, ancora prima di divenire oggetti della nostra rappresentazione oggettivante (e dunque immagini), «ci sfiorino, ci riguardino, o che forse ci abbiano sempre già raggiunto, costituendosi come parte essenziale della configurazione stessa della veduta originaria con cui si danno il passato e il futuro». E il dire le cose, le «parole modeste» del poeta, sono un tentativo di salvare il caduco preservandolo nella sua caducità, sottraendolo al suo esser semplicemente presente (Vorhanden).
Alla decostruzione dell’immagine della città è dedicato il saggio di Giorgia Bordoni. Sulle tracce del flâneur l’autrice rilegge il pensiero di Nancy e di Der- rida in cerca di un’arte della comunità non più orientata su una gerarchia o su un’architettonica. In La ville au loin, saggio inedito di Nancy, di cui Bordoni anticipa alcuni passaggi della sua traduzione in italiano, la città è ripensata al di là di ogni ossessione comunitaria, al di là di ogni mito fondativo che escluda la figura dell’altro, dello straniero, senza comprenderne il ruolo costitutivo. Città in quest’ottica diviene «luogo in cui ha luogo qualcosa di diverso dal luogo». E delocalizzandosi incessantemente, attraverso la sua storia, essa aprendosi si allontana da sé, in attesa della sua figura sempre a venire.
Nella sezione dedicata ai materiali, infine, introdotte da Diana Del Mastro chiudono il volume alcune immagini di recenti opere di Fernanda Mancina. In queste immagini, ultimo strato del nostro palinsesto, ci si augura che il lettore ritrovi in figura il sedimento dei problemi attraversati. E un invito a ripensare il ruolo dell’immaginazione, senza la quale ogni teoria rischia di irrigidirsi tradendo la sua più propria ragion d’essere, la prassi.
SE - 6-7/2014
DA - 2014
KW - Wittgenstein KW - Heidegger KW - Kant KW - Immagine KW - Benjamin KW - Fichte
UR - https://www.rivistapolemos.it/palinsesto-sullimmagine/?lang=it
DO -
PB - Donzelli Editore
LA - it
SP - 5
EP - 9
ER -
@article{,
author = {Mico Capasso},
title = {Palinsesto sull’immagine},
publisher = {Donzelli Editore},
year = {2014},
ISBN = {9788898697243},
issn = {2281-9517},
abstract = {
In una delle conferenze raccolte in Holzwege, Heidegger ha definito il moderno come l’epoca dell’immagine del mondo. Se è possibile parlare genericamente di un’immagine del mondo antico e del mondo medioevale, si comprende la discontinuità istituita dal moderno se si riconosce come sia il mondo stesso a costituirsi come immagine. Certo, per Heidegger già nell’eidos platonico si annuncia la presa del vedere sull’essere, ma solo con il tradursi della sostanza (hypokeimenon, substantia) in soggetto e del mondo in oggetto (rappresentazione, Vorstellung) il divenire immagine del mondo si dispiega in tutta la sua pienezza.
Questa interpretazione dell’essere dell’ente, com’è noto, è la condizione di possibilità della tecnica. Processo inarrestabile, secondo Heidegger, al punto da mutare radicalmente abiti e pratiche di pensiero. L’orizzonte dello studioso, per dire di uno spazio che riguarda direttamente gli autori di questo testo, si riduce sempre più a quello del ricercatore, senza dubbio più specializzato e competente su un determinato campo del sapere, ma spesso incapace di abbracciare con uno sguardo ciò che è in gioco nella sua ricerca.
Pur riconoscendo la radicalità e la forza teoretica del gesto heideggeriano, e talvolta entrando in discussione più o meno esplicita con il filosofo di Essere e Tempo, i contributi che presentiamo nella forma di un palinsesto cercano più modestamente di esplorare le stratificazioni di senso del concetto di immagine, senza affidarle a un disegno destinale o alle aporie intrinseche a una storia delle idee.
Diversi i punti di partenza, che si dispongono intorno alla costellazione orientata dal temine tedesco che traduce la nostra nozione di immagine, Bild. Nella maggior parte dei contributi che si muovono a partire dalla lingua di Kant ed Hegel (ma non solo), si ritroverà facilmente un rinvio a questa radice etimologica, declinata in sostantivi in cui si nostra il genio della lingua tedesca: Urbild, Gebild, Abbildung, Bildung, Einbildungskraft, ecc.
Nella prima sezione, il saggio di chi scrive ricerca in Walter Benjamin e nella sua interpretazione dell’immagine (del «fare immagine» come forma, configurazione) una tradizione altra da quella heideggeriana, sottraendola in particolare alla storia della metafisica della soggettività. Eppure proprio dalla gnoseologia kantiana e fichtiana, dalla filosofia della riflessione, muove il saggio d’apertura. Lo scopo è mostrare come all’interno del processo di costituzione della soggettività (e dell’idealismo) si diano prospettive di una critica intrinseca a quel movimento. Se per i romantici, F. Schlegel e Novalis, la critica è immagine dell’immagine, forma della forma, automovimento dell’opera in se stessa, per Goethe, che Benjamin situa come estremo opposto rispetto a quelli, l’opera d’arte non è interrogabile, ma è un’immagine in cui vengono rifratti gli archetipi (Urbilder). Nella tensione inconciliabile tra queste tesi si guadagna però «nella sua purezza» la possibilità di porre in questione l’essenza della critica, il suo eidos, altrimenti limitato e parziale se posto come problema metafisico o di storia delle idee.
Se la critica insieme provoca ed è provocata dallo scoccare dell’immagine, il «balenare dell’aspetto» (Wittgenstein), il principio della somiglianza, è tematizzato dal saggio di Paolo Gabrielli, sempre a partire dall’opera di Benjamin (Sulla facoltà mimetica). Suo obiettivo è la messa a fuoco delle condizioni di possibilità dell’apparire, del sorgere di «qualcosa in quanto qualcosa», dell’identità nella differenza e della differenza nell’identità. Secondo Gabrielli, il gioco dei giochi, che incrocia le ricerche di Wittgenstein circa il «vedere come» («un misto di vedere e di pensare»), si articola nella problematica soglia tra estetica e logica. Soglia in cui operano come medi immaginazione e lingua; e in cui, nella dialettica tra ripetizione e invenzione, «la mimesi può essere la forma del sovvertimento di ciò che è già da sempre sotto i nostri occhi».
La critica come dialettica in condizione di arresto è l’esercizio in cui Paolo Vinci riconosce il centro della meditazione benjaminiana, enfatizzando l’aspetto politico-messianico come antidoto allo storicismo e all’idea di progresso. Il confronto con Baudelaire, per il quale le immagini furono «grande e primitiva passione», e con Marx, attraverso la scoperta della fantasmagoria della merce, è alla base della grande opera incompiuta su Parigi capitale del XIX secolo. Tra i passages, la folla e gli shock percettivi, in un campo di forze in cui è possibile restare sedotti e risucchiati, il poeta e il critico devono trovare il proprio respiro non al riparo ma nello scontro con i ritmi dettati dalla metropoli.
È il punto di partenza di Cristoph Türcke, i cui testi e la cui intervista sono introdotti e curati da Erika Benini. Türcke, già noto in Italia per La società eccitata ed esponente di spicco tra gli eredi della scuola di Francoforte, prosegue la sua diagnosi critica della società contemporanea. Le immagini elettroniche e gli stimoli cui siamo quotidianamente sottoposti riorganizzano la nostra capacità di attenzione in una continua «distrazione concentrata», rischiando di piegare e di addomesticare la capacità critica del pensiero tout court. In L’immagine del sogno, il testo che presentiamo nella sua prima edizione italiana, Türcke richiama l’importanza di Freud per la teoria critica: gli studi sull’origine dei sogni vengono rivalutati a partire dal nesso genealogico tra allucinazione/sogno e pensiero. Se «l’operazione che l’epoca contemporanea svolge è quella di riportare l’allucinazione nello stato di veglia», originariamente il pensiero è proprio il superamento dello stato di allucinazione, e le immagini del sogno hanno la funzione di proteggere più che destabilizzare il soggetto.
Francesca Fantasia cura e introduce invece la rivisitazione del pensiero fichtiano proposta da Cristoph Asmuth. Si tratta di riconsiderare la teoria costruttivista dell’immagine in Fichte riprendendo le ultime stesure della Dottrina della scienza (1810-1814), sempre troppo poco frequentate rispetto alla prima. Partendo dalla definizione di R. Lauth, quella di Fichte si presenterebbe come una dottrina dell’immagine (Bildenlehre) in cui il sapere sarebbe considerato come schema o «immagine dell’assoluto». Nello stesso tempo Asmuth rivendica il valore di filosofia della prassi (o della libertà), che ha da sempre orientato le costruzione teoretiche di Fichte, il quale non nascondeva di voler essere considerato come il filosofo della rivoluzione francese. Se la legge morale è fondamento dell’essere spirituale, la sua realizzazione costituisce il farsi immagine del logos. E ciò sebbene il principio resti compito, o con una chiara eco rousseauiana, perfettibilità (Bildsamkeit).
La seconda sezione prova a pensare lo statuto ontologico dell’immagine prendendo le mosse dall’arte contemporanea e dal modo in cui la filosofia comprende se stessa a partire dal concetto o dalla facoltà dell’immaginazione.
Qual è il luogo dell’immagine? Il luogo in cui l’immagine si dà come immagine? Il percorso proposto da Massimo Adinolfi parte dalle tele di Rothko per risalire fino alla prima interrogazione filosofica sull’immagine presente nel Sofista di Platone. Dove però l’immagine è irreggimentata da principio nella strategia platonica che fonderà l’immagine mentale, il cui sguardo condiziona la storia della metafisica fino alla fenomenologia e ai suoi eredi. Paradossalmente l’immagine per potersi presentare in quanto tale ha da fare un lungo percorso per svincolarsi dalla presa del pensiero, presentandosi infine nel suo non esser altro che immagine. Un percorso che nello svuotamento della profondità (prospettiva, rinascimento, barocco) e nell’abrogazione dei diritti spaziali lascia emergere una «superficie poco profonda», o shallow space (non semplicemente piatta). È da quel luogo che si può comprendere ciò che l’arte contemporanea vuole lascar vedere, e ciò al di là della consueta e semplicistica opposizione tra figurativo e astratto, tra schema e forze primordiali. L’immagine appare così proprio nel momento in cui rinuncia ad apparire, a darsi come qualcosa per qualcuno. E ciò in «uno spazio poco profondo, e a mala pena visibile, in cui l’immagine non si è ancora del tutto sollevata dal mondo».
Il saggio di Fabio Gianfrancesco e Tommaso Morawski prende spunto dall’oblio dell’immaginazione evidenziato dall’opera di Hans Blumenberg e dalla ricadute di questa dimenticanza nell’antropologia filosofica. Da questa rimozione Blumenberg però salva l’opera kantiana, permettendo così agli au- tori di ripartire da due esperienze della filosofia contemporanea che hanno ridato voce al problema dello schematismo kantiano. Si tratta di Emilio Garroni e Gilles Deleuze: è certo merito delle loro ricerche l’aver evidenziato il ruolo che il giudizio riflettente della terza critica ha retrospettivamente sul giudizio determinante, liberando l’immaginazione e la sua portata di negazione e inattualità. Gianfrancesco e Morawski qui si confrontano con le tesi
di Paolo Virno sulla centralità del linguaggio (e in particolare sulla particella ‘non’) per noi essere viventi, e con gli studi di Pietro Montani, che di Garroni fu allievo, sul rapporto tra tecnica e immaginazione.
Questo rapporto è al centro anche del lavoro di Mario Pezzella sull’opera di Paul Klee. Compito dell’arte non è più (ammesso che lo sia mai stato) l’imitazione della natura, ché questa si presenta ormai reificata nella figura della merce. Piuttosto, l’arte deve rendere visibile ciò che la tecnica tende a cancellare: la possibilità che a quel destino possa opporsi la chance di un poter essere altrimenti. La risposta all’alienazione e alla tecnica tuttavia non si situa nel retrocedere a uno stadio più originario e incontaminato, ma nella capacità di dialettizzare e incantare le forze e forme seriali che strutturano la contemporaneità. O, come insegna Klee, mostrando nella figura l’atto della figurazione, che è potenza e scoperta di possibili.
L’opera di Wassily Kandinsky analizzata da Alexandre Kojève è al centro del contributo di Sabina Tortorella. Se rappresentare l’inesistente è il compito della pittura, l’analisi del filosofo di origini russe muove da un presupposto apparentemente paradossale, almeno agli occhi di chi è abituato a considerare Kandinsky il maestro dell’astrattismo. Nella ripartizione tra arte astratta e concreta, questi è ritenuto da Kojève l’unico pittore realmente concreto e oggettivo. Se infatti le varie tipologia di arte astratta mantengono un riferimento più o meno forte a un presupposto esterno, nella pittura di Kandinsky questo è totalmente tolto. Al Bello rappresentato dalla sua opera «nulla manca, nulla è stato eliminato in lui, poiché questo – non esistendo al di fuori del quadro – non può esser più ricco e più reale di quanto non lo sia nel quadro o in quanto quadro». Così l’opera di Kandinsky è «pittura totale e assoluta», nella misura in cui «non “rappresenta” un frammento dell’Universo, ma un Universo intero». In questa figura post-storica riemerge lo schema della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, di cui Kojève fu grande interprete e divulgatore: come l’esperienza della coscienza culmina nel sapere assoluto, così l’arte astratta raggiunge la sua pienezza nella pittura concreta e assoluta di Kandinsky.
Nel saggio di Camilla Croce viene ripercorsa criticamente la lettura heideggeriana di Rilke e la sua riconduzione a una metafisica dell’immagine e della presenza, come rovesciamento speculare del platonismo. L’autrice cerca di mostrare come, per sottrarsi al «fare senza immagine» della produzione tecnica, il poeta tedesco trovi una lingua nelle cose che non è soltanto la reazione del cuore, dell’istinto e dell’irrazionale contro la ragione. Né semplicemente l’animalizzazione dell’umano o l’umanizzazione dell’animale. Rilke crede che le cose, ancora prima di divenire oggetti della nostra rappresentazione oggettivante (e dunque immagini), «ci sfiorino, ci riguardino, o che forse ci abbiano sempre già raggiunto, costituendosi come parte essenziale della configurazione stessa della veduta originaria con cui si danno il passato e il futuro». E il dire le cose, le «parole modeste» del poeta, sono un tentativo di salvare il caduco preservandolo nella sua caducità, sottraendolo al suo esser semplicemente presente (Vorhanden).
Alla decostruzione dell’immagine della città è dedicato il saggio di Giorgia Bordoni. Sulle tracce del flâneur l’autrice rilegge il pensiero di Nancy e di Der- rida in cerca di un’arte della comunità non più orientata su una gerarchia o su un’architettonica. In La ville au loin, saggio inedito di Nancy, di cui Bordoni anticipa alcuni passaggi della sua traduzione in italiano, la città è ripensata al di là di ogni ossessione comunitaria, al di là di ogni mito fondativo che escluda la figura dell’altro, dello straniero, senza comprenderne il ruolo costitutivo. Città in quest’ottica diviene «luogo in cui ha luogo qualcosa di diverso dal luogo». E delocalizzandosi incessantemente, attraverso la sua storia, essa aprendosi si allontana da sé, in attesa della sua figura sempre a venire.
Nella sezione dedicata ai materiali, infine, introdotte da Diana Del Mastro chiudono il volume alcune immagini di recenti opere di Fernanda Mancina. In queste immagini, ultimo strato del nostro palinsesto, ci si augura che il lettore ritrovi in figura il sedimento dei problemi attraversati. E un invito a ripensare il ruolo dell’immaginazione, senza la quale ogni teoria rischia di irrigidirsi tradendo la sua più propria ragion d’essere, la prassi.
}
journal = {Pólemos},
number = {6-7/2014},
doi = {},
URL = {https://www.rivistapolemos.it/palinsesto-sullimmagine/?lang=it},
keywords = {Wittgenstein; Heidegger; Kant; Immagine; Benjamin; Fichte.},
pages = {5-9},
language = {it}
}