In quella che potrebbe essere definita la stagione dichiaratamente politica del pensiero di Michel Foucault, all’incirca gli anni Settanta, il problema del conflitto si è ritagliato uno spazio particolare, attestato da parole chiave quali potere, resistenze, insubordinazione dei saperi assoggettati, rivolte di condotta, contro condotte, volontà di non essere governati, rapporti strategici, situazione d’affrontement. Intorno a queste parole chiave, che punteggiano ampiamente opere come Sorvegliare e punire, La volontà di sapere, il corso del 1977-78 Sécurité, population, territoire, per non parlare della raccolta italiana Microfisica del potere, autentica silloge di un pensiero informato dalla logica del movimento e dell’opposizione binaria, si è consolidata una letteratura che, con toni ora apologetici ora critici, ha restituito la figura di un pensatore estremo, irrimediabilmente votato a situarsi ai margini antagonistici sul terreno delle idee. Si è finito, così, per confondere facilmente la radicalità della proposta teorica, che resta in ogni caso la forza trainante della capacità argomentativa, con la sua associazione a questa o a quella “causa” sociale, politica, religiosa – i folli, i carcerati, ma anche le attese riposte nella e deluse dalla “spiritualità politica” della rivoluzione di Khomeini. In un simile scenario il conflitto rappresentava giocoforza il centro di gravitazione di ogni istanza, l’irrinunciabile presupposto che conferiva il senso ultimo a qualsiasi opzione teorica. Ma in questo modo, finiva esso stesso per impoverirsi del suo significato concettualmente più denso, mentre cresceva la sua dimensione di luogo comune. Analogamente, appiattire il carattere di radicalità sul versante della rivendicazione gruppuscolare significava riconoscere tale privilegio a segmenti sociali definiti, portatori di una capacità e di una legittimità di lotta per il semplice fatto di figurare quali destinatari di oggettivi processi di assoggettamento. A fronte di questo impiego plausibile, ma sicuramente di “nicchia”, solitamente proposto dal tema del conflitto e della radicalità che esso esprime nell’opera di Foucault, vorrei cercare di risituare tale questione sul terreno più basilare di tutti, che non è ontologico, bensì storico. Quello di Foucault è un modo di pensare “secondo storia” e ciò in un duplice senso: come molla di avvio della riflessione, poiché i problemi irrisolti del presente spingono a ritroso l’interrogazione verso le condizioni che li hanno resi effettivamente possibili e perciò dotati di senso, come criterio di controllo nell’elaborazione dei concetti, nel senso che la riflessione sull’oggetto nasce sempre sulla scorta di precisi problemi pratici e mai come pura esigenza speculativa. I corsi al Collége de France, la cui pubblicazione è ormai avanzata, sono la testimonianza più istruttiva di una ricerca che intende cogliere al varco gli eventi storici per capire un loro contenuto selettivo del reale sotto forma di senso. Come già per Max Weber, anche per Foucault il senso storico si ricava da un procedimento di astrazione della dimensione concettuale dalla congerie dei fatti e delle pratiche accaduti. Non che il lavoro dello storico consista in questa opera di filtro: la lezione delle Annales per un verso, e dello strutturalismo per un altro, sono infatti troppo vive in Foucault per indurlo a cadere in facili generalizzazioni teleologiche – al contrario dello stesso Weber, che rivela il suo debito verso l’Historismus posthegeliano quando sembra reificare unità di senso come Rationalisierung, Modernisierung, Säkularisierung, ecc. La storia che Foucault intende è piuttosto il supporto di una problematizzazione, la cornice di intelligibilità per una attività riflessiva i cui autori sono, in definitiva, degli attori in quanto pensanti e non in quanto agenti. Il rimprovero che gli storici di mestiere hanno spesso rivolto alle sue analisi è stato proprio quello di avere soppiantato i soggetti in carne e ossa, immersi in pratiche anonime, banali, non qualificate, portatrici di un’esperienza dispersa e allo stesso tempo stratificata, con rigidi e codificati sistemi discorsivi, in grado forse di articolare un senso che sfugge allo storico “du ras du sol”1, ma sicuramente incapaci di cogliere le differenze della vita. Il Foucault dei corsi, per la natura stessa di un sapere in cui elaborazione e comunicazione si sovrappongono e si nutrono quasi l’una con l’altra, lascia tuttavia emergere un rapporto assai più vibrante con la storia di quanto diano a vedere gli spesso asettici riferimenti dei testi. In particolare, il corso del 1975-76 Il faut défendre la société2, di cui il contemporaneo La volonté de savoir raccoglie solo lo spunto finale sul biopotere, affronta una questione altrettanto importante anticipatrice, se si pensa al dibattito che si sarebbe acceso un decennio dopo, e che non si è mai sopito, sull’uso pubblico della storia. In questo corso del 1976 l’implicazione tra il tema del conflitto e lo statuto del discorso storico è così profonda da meritare qualche considerazione particolare.
J. Revel “L’histoire au ras du sol”, prefazione all’ed. francese di G. Levi, Le pouvoir au village. Histoire d’un exorciste dans le Piemont du XVI siècle, Paris, Gallimard, 1989 (ed. originale: L’eredità immateriale. Carriera di un esorcista nel Piemonte del Seicento, Torino, Einaudi, 1985). ↩
M. Foucault, “Il faut défendre la société”, edizione stabilita da M. Bertanie, A. Fontana, Paris, Gallimard-Seuil “hautes Etudes”, 1977, tr. it. “Bisogna difendere la società”, a cura degli stessi, Milano, Feltrinelli, 1998. D’ora in poi DS. ↩
Napoli, Paolo."MICHEL FOUCAULT: la storia come strumento di lotta". PólemosVI. 4-5. (2011): 215-229https://www.rivistapolemos.it/michel-foucault-la-storia-come-strumento-di-lotta/?lang=it
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Napoli, P.(2011). "MICHEL FOUCAULT: la storia come strumento di lotta". PólemosVI. (4-5). 215-229https://www.rivistapolemos.it/michel-foucault-la-storia-come-strumento-di-lotta/?lang=it
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Napoli, Paolo.2011. "MICHEL FOUCAULT: la storia come strumento di lotta". PólemosVI (4-5). Donzelli Editore: 215-229. https://www.rivistapolemos.it/michel-foucault-la-storia-come-strumento-di-lotta/?lang=it
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TY - JOUR
A1 - Napoli, Paolo
PY - 2011
TI - MICHEL FOUCAULT: la storia come strumento di lotta
JO - Plemos
SN - 9788890413650/2281-9517
AB - In quella che potrebbe essere definita la stagione dichiaratamente politica del pensiero di Michel Foucault, all’incirca gli anni Settanta, il problema del conflitto si è ritagliato uno spazio particolare, attestato da parole chiave quali potere, resistenze, insubordinazione dei saperi assoggettati, rivolte di condotta, contro condotte, volontà di non essere governati, rapporti strategici, situazione d’affrontement. Intorno a queste parole chiave, che punteggiano ampiamente opere come Sorvegliare e punire, La volontà di sapere, il corso del 1977-78 Sécurité, population, territoire, per non parlare della raccolta italiana Microfisica del potere, autentica silloge di un pensiero informato dalla logica del movimento e dell’opposizione binaria, si è consolidata una letteratura che, con toni ora apologetici ora critici, ha restituito la figura di un pensatore estremo, irrimediabilmente votato a situarsi ai margini antagonistici sul terreno delle idee. Si è finito, così, per confondere facilmente la radicalità della proposta teorica, che resta in ogni caso la forza trainante della capacità argomentativa, con la sua associazione a questa o a quella “causa” sociale, politica, religiosa – i folli, i carcerati, ma anche le attese riposte nella e deluse dalla “spiritualità politica” della rivoluzione di Khomeini. In un simile scenario il conflitto rappresentava giocoforza il centro di gravitazione di ogni istanza, l’irrinunciabile presupposto che conferiva il senso ultimo a qualsiasi opzione teorica. Ma in questo modo, finiva esso stesso per impoverirsi del suo significato concettualmente più denso, mentre cresceva la sua dimensione di luogo comune. Analogamente, appiattire il carattere di radicalità sul versante della rivendicazione gruppuscolare significava riconoscere tale privilegio a segmenti sociali definiti, portatori di una capacità e di una legittimità di lotta per il semplice fatto di figurare quali destinatari di oggettivi processi di assoggettamento. A fronte di questo impiego plausibile, ma sicuramente di “nicchia”, solitamente proposto dal tema del conflitto e della radicalità che esso esprime nell’opera di Foucault, vorrei cercare di risituare tale questione sul terreno più basilare di tutti, che non è ontologico, bensì storico. Quello di Foucault è un modo di pensare “secondo storia” e ciò in un duplice senso: come molla di avvio della riflessione, poiché i problemi irrisolti del presente spingono a ritroso l’interrogazione verso le condizioni che li hanno resi effettivamente possibili e perciò dotati di senso, come criterio di controllo nell’elaborazione dei concetti, nel senso che la riflessione sull’oggetto nasce sempre sulla scorta di precisi problemi pratici e mai come pura esigenza speculativa. I corsi al Collége de France, la cui pubblicazione è ormai avanzata, sono la testimonianza più istruttiva di una ricerca che intende cogliere al varco gli eventi storici per capire un loro contenuto selettivo del reale sotto forma di senso. Come già per Max Weber, anche per Foucault il senso storico si ricava da un procedimento di astrazione della dimensione concettuale dalla congerie dei fatti e delle pratiche accaduti. Non che il lavoro dello storico consista in questa opera di filtro: la lezione delle Annales per un verso, e dello strutturalismo per un altro, sono infatti troppo vive in Foucault per indurlo a cadere in facili generalizzazioni teleologiche – al contrario dello stesso Weber, che rivela il suo debito verso l’Historismus posthegeliano quando sembra reificare unità di senso come Rationalisierung, Modernisierung, Säkularisierung, ecc. La storia che Foucault intende è piuttosto il supporto di una problematizzazione, la cornice di intelligibilità per una attività riflessiva i cui autori sono, in definitiva, degli attori in quanto pensanti e non in quanto agenti. Il rimprovero che gli storici di mestiere hanno spesso rivolto alle sue analisi è stato proprio quello di avere soppiantato i soggetti in carne e ossa, immersi in pratiche anonime, banali, non qualificate, portatrici di un’esperienza dispersa e allo stesso tempo stratificata, con rigidi e codificati sistemi discorsivi, in grado forse di articolare un senso che sfugge allo storico “du ras du sol”[1. J. Revel “L’histoire au ras du sol”, prefazione all’ed. francese di G. Levi, Le pouvoir au village. Histoire d’un exorciste dans le Piemont du XVI siècle, Paris, Gallimard, 1989 (ed. originale: L’eredità immateriale. Carriera di un esorcista nel Piemonte del Seicento, Torino, Einaudi, 1985).], ma sicuramente incapaci di cogliere le differenze della vita. Il Foucault dei corsi, per la natura stessa di un sapere in cui elaborazione e comunicazione si sovrappongono e si nutrono quasi l’una con l’altra, lascia tuttavia emergere un rapporto assai più vibrante con la storia di quanto diano a vedere gli spesso asettici riferimenti dei testi. In particolare, il corso del 1975-76 Il faut défendre la société[2. M. Foucault, “Il faut défendre la société”, edizione stabilita da M. Bertanie, A. Fontana, Paris, Gallimard-Seuil “hautes Etudes”, 1977, tr. it. “Bisogna difendere la società”, a cura degli stessi, Milano, Feltrinelli, 1998. D’ora in poi DS.], di cui il contemporaneo La volonté de savoir raccoglie solo lo spunto finale sul biopotere, affronta una questione altrettanto importante anticipatrice, se si pensa al dibattito che si sarebbe acceso un decennio dopo, e che non si è mai sopito, sull’uso pubblico della storia. In questo corso del 1976 l’implicazione tra il tema del conflitto e lo statuto del discorso storico è così profonda da meritare qualche considerazione particolare.
SE - 4-5/2011
DA - 2011
KW - filosofia della storia KW - Foucault
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Si è finito, così, per confondere facilmente la radicalità della proposta teorica, che resta in ogni caso la forza trainante della capacità argomentativa, con la sua associazione a questa o a quella “causa” sociale, politica, religiosa – i folli, i carcerati, ma anche le attese riposte nella e deluse dalla “spiritualità politica” della rivoluzione di Khomeini. In un simile scenario il conflitto rappresentava giocoforza il centro di gravitazione di ogni istanza, l’irrinunciabile presupposto che conferiva il senso ultimo a qualsiasi opzione teorica. Ma in questo modo, finiva esso stesso per impoverirsi del suo significato concettualmente più denso, mentre cresceva la sua dimensione di luogo comune. Analogamente, appiattire il carattere di radicalità sul versante della rivendicazione gruppuscolare significava riconoscere tale privilegio a segmenti sociali definiti, portatori di una capacità e di una legittimità di lotta per il semplice fatto di figurare quali destinatari di oggettivi processi di assoggettamento. A fronte di questo impiego plausibile, ma sicuramente di “nicchia”, solitamente proposto dal tema del conflitto e della radicalità che esso esprime nell’opera di Foucault, vorrei cercare di risituare tale questione sul terreno più basilare di tutti, che non è ontologico, bensì storico. Quello di Foucault è un modo di pensare “secondo storia” e ciò in un duplice senso: come molla di avvio della riflessione, poiché i problemi irrisolti del presente spingono a ritroso l’interrogazione verso le condizioni che li hanno resi effettivamente possibili e perciò dotati di senso, come criterio di controllo nell’elaborazione dei concetti, nel senso che la riflessione sull’oggetto nasce sempre sulla scorta di precisi problemi pratici e mai come pura esigenza speculativa. I corsi al Collége de France, la cui pubblicazione è ormai avanzata, sono la testimonianza più istruttiva di una ricerca che intende cogliere al varco gli eventi storici per capire un loro contenuto selettivo del reale sotto forma di senso. Come già per Max Weber, anche per Foucault il senso storico si ricava da un procedimento di astrazione della dimensione concettuale dalla congerie dei fatti e delle pratiche accaduti. Non che il lavoro dello storico consista in questa opera di filtro: la lezione delle Annales per un verso, e dello strutturalismo per un altro, sono infatti troppo vive in Foucault per indurlo a cadere in facili generalizzazioni teleologiche – al contrario dello stesso Weber, che rivela il suo debito verso l’Historismus posthegeliano quando sembra reificare unità di senso come Rationalisierung, Modernisierung, Säkularisierung, ecc. La storia che Foucault intende è piuttosto il supporto di una problematizzazione, la cornice di intelligibilità per una attività riflessiva i cui autori sono, in definitiva, degli attori in quanto pensanti e non in quanto agenti. Il rimprovero che gli storici di mestiere hanno spesso rivolto alle sue analisi è stato proprio quello di avere soppiantato i soggetti in carne e ossa, immersi in pratiche anonime, banali, non qualificate, portatrici di un’esperienza dispersa e allo stesso tempo stratificata, con rigidi e codificati sistemi discorsivi, in grado forse di articolare un senso che sfugge allo storico “du ras du sol”[1. J. Revel “L’histoire au ras du sol”, prefazione all’ed. francese di G. Levi, Le pouvoir au village. Histoire d’un exorciste dans le Piemont du XVI siècle, Paris, Gallimard, 1989 (ed. originale: L’eredità immateriale. Carriera di un esorcista nel Piemonte del Seicento, Torino, Einaudi, 1985).], ma sicuramente incapaci di cogliere le differenze della vita. Il Foucault dei corsi, per la natura stessa di un sapere in cui elaborazione e comunicazione si sovrappongono e si nutrono quasi l’una con l’altra, lascia tuttavia emergere un rapporto assai più vibrante con la storia di quanto diano a vedere gli spesso asettici riferimenti dei testi. In particolare, il corso del 1975-76 Il faut défendre la société[2. M. Foucault, “Il faut défendre la société”, edizione stabilita da M. Bertanie, A. Fontana, Paris, Gallimard-Seuil “hautes Etudes”, 1977, tr. it. “Bisogna difendere la società”, a cura degli stessi, Milano, Feltrinelli, 1998. D’ora in poi DS.], di cui il contemporaneo La volonté de savoir raccoglie solo lo spunto finale sul biopotere, affronta una questione altrettanto importante anticipatrice, se si pensa al dibattito che si sarebbe acceso un decennio dopo, e che non si è mai sopito, sull’uso pubblico della storia. In questo corso del 1976 l’implicazione tra il tema del conflitto e lo statuto del discorso storico è così profonda da meritare qualche considerazione particolare.}
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