I termini con i quali Clement Greenberg, influentissimo critico d’arte americano, ha descritto la rivoluzione modernista in pittura sono noti:
Da Giotto a Courbet, il primo compito del pittore era stato quello di creare l’illusione di uno spazio tridimensionale su una superficie piatta. Questa superficie veniva guardata come attraverso il proscenio di un palcoscenico. Il Modernismo ha reso questo palcoscenico sempre meno profondo, a tal punto che ora lo sfondo viene a coincidere con il sipario, il quale è diventato tutto ciò su cui il pittore può ancora lavorare. Non importa quanto il pittore possa in maniera ricca e varia segnare e piega- re il sipario; anche se riesce ancora a tracciare immagini riconoscibili su di esso, non si può non avvertire un certo senso di perdita. A dispiacere non è tanto la distorsione oppure l’assenza di immagini, quanto piuttosto l’abrogazione di quei diritti spaziali di cui le immagini solevano godere nel passato, quando il pittore era obbligato a creare l’illusione dello stesso tipo di spazio di quello in cui si muovono i nostri corpi.1
Ora, a parte il «senso di perdita», che cosa comporta questa «abrogazione dei diritti spaziali», per cui il pittore si è definitivamente sottratto all’obbligo di creare, per le sue opere, l’illusione che le immagini abitino lo stesso tipo di spazio in cui i corpi si muovono? Che cosa comporta la distruzione del codice prospettico rinascimentale (e poi manierista, e barocco) o, per dirla en philosophe, con Edmund Husserl, evitare «gli errori seducenti» dell’ottica geometrico-cartesiana? Le conseguenze di un simile mutamento di paradigma sono state (e sono tuttora) vaste e di ampia portata per l’intero campo delle arti visive, campo che nell’ultimo secolo non si è solo modificato ma anche ampliato a dismisura, grazie all’avvento della fotografia, del cinema, della televisione, e in generale alla proliferazione elettronica delle immagini. Ma, contrariamente a quel che pensa il senso comune, tali conseguenze riguardano solo subordinatamente la riconoscibilità delle immagini, il rifiuto della figuratività: non importa infatti se le immagini siano o meno riconoscibili sulla tela, quel che davvero conta è che ora stanno davvero sulla tela, e non c’è più modo di proiettarle in uno spazio illusorio.
C. Greenberg, Abstract, Representational, and so forth, in C. Greenberg, Art and Culture. Critical Essays, Beacon Press, Boston 1989, p.136. ↩
Adinolfi, Massimo."L’IMMAGINE TRA SUPERFICIE E POCA PROFONDITÀ". PólemosVIII. 6-7. (2014): 117-132https://www.rivistapolemos.it/limmagine-tra-superficie-e-poca-profondita/?lang=it
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Adinolfi, M.(2014). "L’IMMAGINE TRA SUPERFICIE E POCA PROFONDITÀ". PólemosVIII. (6-7). 117-132https://www.rivistapolemos.it/limmagine-tra-superficie-e-poca-profondita/?lang=it
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Adinolfi, Massimo.2014. "L’IMMAGINE TRA SUPERFICIE E POCA PROFONDITÀ". PólemosVIII (6-7). Donzelli Editore: 117-132. https://www.rivistapolemos.it/limmagine-tra-superficie-e-poca-profondita/?lang=it
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TY - JOUR
A1 - Adinolfi, Massimo
PY - 2014
TI - L’IMMAGINE TRA SUPERFICIE E POCA PROFONDITÀ
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SN - 9788898697243/2281-9517
AB -
I termini con i quali Clement Greenberg, influentissimo critico d’arte americano, ha descritto la rivoluzione modernista in pittura sono noti:
Da Giotto a Courbet, il primo compito del pittore era stato quello di creare l’illusione di uno spazio tridimensionale su una superficie piatta. Questa superficie veniva guardata come attraverso il proscenio di un palcoscenico. Il Modernismo ha reso questo palcoscenico sempre meno profondo, a tal punto che ora lo sfondo viene a coincidere con il sipario, il quale è diventato tutto ciò su cui il pittore può ancora lavorare. Non importa quanto il pittore possa in maniera ricca e varia segnare e piega- re il sipario; anche se riesce ancora a tracciare immagini riconoscibili su di esso, non si può non avvertire un certo senso di perdita. A dispiacere non è tanto la distorsione oppure l’assenza di immagini, quanto piuttosto l’abrogazione di quei diritti spaziali di cui le immagini solevano godere nel passato, quando il pittore era obbligato a creare l’illusione dello stesso tipo di spazio di quello in cui si muovono i nostri corpi.[1. C. Greenberg, Abstract, Representational, and so forth, in C. Greenberg, Art and Culture. Critical Essays, Beacon Press, Boston 1989, p.136. ]
Ora, a parte il «senso di perdita», che cosa comporta questa «abrogazione dei diritti spaziali», per cui il pittore si è definitivamente sottratto all’obbligo di creare, per le sue opere, l’illusione che le immagini abitino lo stesso tipo di spazio in cui i corpi si muovono? Che cosa comporta la distruzione del codice prospettico rinascimentale (e poi manierista, e barocco) o, per dirla en philosophe, con Edmund Husserl, evitare «gli errori seducenti» dell’ottica geometrico-cartesiana? Le conseguenze di un simile mutamento di paradigma sono state (e sono tuttora) vaste e di ampia portata per l’intero campo delle arti visive, campo che nell’ultimo secolo non si è solo modificato ma anche ampliato a dismisura, grazie all’avvento della fotografia, del cinema, della televisione, e in generale alla proliferazione elettronica delle immagini. Ma, contrariamente a quel che pensa il senso comune, tali conseguenze riguardano solo subordinatamente la riconoscibilità delle immagini, il rifiuto della figuratività: non importa infatti se le immagini siano o meno riconoscibili sulla tela, quel che davvero conta è che ora stanno davvero sulla tela, e non c’è più modo di proiettarle in uno spazio illusorio.
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I termini con i quali Clement Greenberg, influentissimo critico d’arte americano, ha descritto la rivoluzione modernista in pittura sono noti:
Da Giotto a Courbet, il primo compito del pittore era stato quello di creare l’illusione di uno spazio tridimensionale su una superficie piatta. Questa superficie veniva guardata come attraverso il proscenio di un palcoscenico. Il Modernismo ha reso questo palcoscenico sempre meno profondo, a tal punto che ora lo sfondo viene a coincidere con il sipario, il quale è diventato tutto ciò su cui il pittore può ancora lavorare. Non importa quanto il pittore possa in maniera ricca e varia segnare e piega- re il sipario; anche se riesce ancora a tracciare immagini riconoscibili su di esso, non si può non avvertire un certo senso di perdita. A dispiacere non è tanto la distorsione oppure l’assenza di immagini, quanto piuttosto l’abrogazione di quei diritti spaziali di cui le immagini solevano godere nel passato, quando il pittore era obbligato a creare l’illusione dello stesso tipo di spazio di quello in cui si muovono i nostri corpi.[1. C. Greenberg, Abstract, Representational, and so forth, in C. Greenberg, Art and Culture. Critical Essays, Beacon Press, Boston 1989, p.136. ]
Ora, a parte il «senso di perdita», che cosa comporta questa «abrogazione dei diritti spaziali», per cui il pittore si è definitivamente sottratto all’obbligo di creare, per le sue opere, l’illusione che le immagini abitino lo stesso tipo di spazio in cui i corpi si muovono? Che cosa comporta la distruzione del codice prospettico rinascimentale (e poi manierista, e barocco) o, per dirla en philosophe, con Edmund Husserl, evitare «gli errori seducenti» dell’ottica geometrico-cartesiana? Le conseguenze di un simile mutamento di paradigma sono state (e sono tuttora) vaste e di ampia portata per l’intero campo delle arti visive, campo che nell’ultimo secolo non si è solo modificato ma anche ampliato a dismisura, grazie all’avvento della fotografia, del cinema, della televisione, e in generale alla proliferazione elettronica delle immagini. Ma, contrariamente a quel che pensa il senso comune, tali conseguenze riguardano solo subordinatamente la riconoscibilità delle immagini, il rifiuto della figuratività: non importa infatti se le immagini siano o meno riconoscibili sulla tela, quel che davvero conta è che ora stanno davvero sulla tela, e non c’è più modo di proiettarle in uno spazio illusorio.
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