Nel 1958 nelle prime pagine di Vita activa Hannah Arendt prefigurava il rischio a venire di una «società di lavoratori senza lavoro»1. Secondo questa previsione, in concomitanza con l’introduzione dell’automazione in una fase di capitalismo industriale avanzato, la “glorificazione teoretica del lavoro” propria dell’etica borghese avrebbe attraversato una crisi epocale destinata a deporre l’attività lavorativa dalla funzione di cardine di riproduzione della società che essa aveva svolto durante tutto l’arco dell’era moderna. Arendt individuava in questo mutamento rivoluzionario una meta auspicabile – nella misura in cui avrebbe costituito il culmine del processo di liberazione dell’umanità dalle “pastoie del lavoro” – e insieme un traguardo pericoloso che avrebbe obbligato gli individui, affrancati dalla condizione dell’animal laborans, a confrontarsi con la perdita dell’unica attività capace di restituire loro una fisionomia sociale e a fronteggiare la minaccia dell’alienazione nel consumo2. A distanza di qualche decennio, negli anni ’80-’90, il dibattito sulla fine del lavoro è tornato in auge in risposta ai cambiamenti generati dalla cosiddetta “terza rivoluzione industriale” innescata dallo sviluppo dell’informatica e dell’elettronica digitale e dall’avvio del ciclo postfordista. Il tema del futuro del lavoro e delle sorti della società postindustriale si è imposto all’attenzione della filosofia, dell’economia, della sociologia nell’opera di quanti hanno avvertito con urgenza la necessità di interrogarsi sull’impatto delle trasformazioni socioeconomiche in corso e di riflettere sui possibili scenari sociali che sarebbero stati dischiusi dal nuovo ordine mondiale, contrassegnato per un verso dalla progressiva estinzione del lavoro salariato e, per un altro, dalla messa in circolazione di una sempre maggiore quantità di tempo libero a disposizione degli individui e della collettività. Società del rischio3, Kulturgesellschaft 4, società postindustriale5 sono categorie che esprimono, pur nella differenza di accenti, un presupposto essenziale comune: la consapevolezza della fine de «l’esperienza sociale fondamentale del lavoro», per dirla con le parole di Ulrich Beck6, e la constatazione di una conseguente trasformazione sistemica della società, tanto a livello economico, quanto a livello politico, culturale e antropologico – che avrebbe dischiuso una nuova fase storica in cui «le macchine sostituiranno sempre più il lavoro umano nella produzione di beni e servizi»7 . Nelle pagine che seguono si tenterà di riflettere criticamente sull’ipotesi della ‘fine del lavoro’ concentrandosi su alcuni dei contributi più significativi che hanno alimentato il dibattito internazionale degli ultimi vent’anni. L’orizzonte preliminare del nostro approfondimento sarà una disamina della categoria di lavoro messa in campo nelle teorie della fine del lavoro, condotta con l’obiettivo di riposizionare tale categoria in relazione ai meccanismi di accumulazione del capitale. In un secondo momento si cercherà di ragionare sulla validità del paradigma postfordista concentrandosi sull’analisi – circoscritta e non esaustiva – di alcune teorie del capitalismo cognitivo e del lavoro immateriale elaborate in ambito neo-operaista. L’intento è quello di indagare la possibilità di rendere conto delle “metamorfosi del lavoro”8 nel quadro di una lettura continuista delle trasformazioni socioeconomiche avvenute nel corso dell’ultimo trentennio. In questa ottica, introducendo la nozione di iperfordismo, verificheremo l’ipotesi di poter interpretare tali trasformazioni non come il frutto di un’inversione di tendenza lungo la linea di espansione del capitalismo fordista, bensì come l’esito di un processo ciclico di complessificazione e approfondimento di esso dissimulato dai dispositivi feticistici della produzione capitalistica contemporanea.
H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1964, p. 10. ↩
J. Rifkin, La fine del lavoro: il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era postmercato, trad. it. di P. Canton, Mondadori, Milano 2002, p. 457. Diversamente da Rifkin, il sociologo M. Castells ritiene che la nuova morfologia sociale determinata dalla rete e dalla diffusione delle tecnologie dell’informazione produca l’abbandono progressivo di mansioni e impieghi diventati obsoleti, ma generi al tempo stesso la nascita di nuovi lavori e nuova occupazione su scala mondiale, scongiurando il rischio della disoccupazione di massa paventato da Rifkin. Si veda M. Castells, La nascita della societa in rete, trad. it. di L. Turchet, Università Bocconi editore, Milano 2002. ↩
È il titolo del volume di A. Gorz citato nella nota 4. ↩
Mascat, Jamila M. H.."LAVORO SENZA FINE. Alcune considerazioni sulla “rivoluzione tecnologica” e il paradigma postfordista". PólemosV. 2-3. (2010): 280-296https://www.rivistapolemos.it/lavoro-senza-fine-alcune-considerazioni-sulla-rivoluzione-tecnologica-e-il-paradigma-postfordista/?lang=it
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Mascat, J.(2010). "LAVORO SENZA FINE. Alcune considerazioni sulla “rivoluzione tecnologica” e il paradigma postfordista". PólemosV. (2-3). 280-296https://www.rivistapolemos.it/lavoro-senza-fine-alcune-considerazioni-sulla-rivoluzione-tecnologica-e-il-paradigma-postfordista/?lang=it
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Mascat, Jamila M. H..2010. "LAVORO SENZA FINE. Alcune considerazioni sulla “rivoluzione tecnologica” e il paradigma postfordista". PólemosV (2-3). Donzelli Editore: 280-296. https://www.rivistapolemos.it/lavoro-senza-fine-alcune-considerazioni-sulla-rivoluzione-tecnologica-e-il-paradigma-postfordista/?lang=it
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TY - JOUR
A1 - Mascat, Jamila M. H.
PY - 2010
TI - LAVORO SENZA FINE. Alcune considerazioni sulla “rivoluzione tecnologica” e il paradigma postfordista
JO - Plemos
SN - 8890413611/2281-9517
AB - Nel 1958 nelle prime pagine di Vita activa Hannah Arendt prefigurava il rischio a venire di una «società di lavoratori senza lavoro»[1. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1964, p. 10.]. Secondo questa previsione, in concomitanza con l’introduzione dell’automazione in una fase di capitalismo industriale avanzato, la “glorificazione teoretica del lavoro” propria dell’etica borghese avrebbe attraversato una crisi epocale destinata a deporre l’attività lavorativa dalla funzione di cardine di riproduzione della società che essa aveva svolto durante tutto l’arco dell’era moderna. Arendt individuava in questo mutamento rivoluzionario una meta auspicabile – nella misura in cui avrebbe costituito il culmine del processo di liberazione dell’umanità dalle “pastoie del lavoro” – e insieme un traguardo pericoloso che avrebbe obbligato gli individui, affrancati dalla condizione dell’animal laborans, a confrontarsi con la perdita dell’unica attività capace di restituire loro una fisionomia sociale e a fronteggiare la minaccia dell’alienazione nel consumo[2. Ibid .]. A distanza di qualche decennio, negli anni ’80-’90, il dibattito sulla fine del lavoro è tornato in auge in risposta ai cambiamenti generati dalla cosiddetta “terza rivoluzione industriale” innescata dallo sviluppo dell’informatica e dell’elettronica digitale e dall’avvio del ciclo postfordista. Il tema del futuro del lavoro e delle sorti della società postindustriale si è imposto all’attenzione della filosofia, dell’economia, della sociologia nell’opera di quanti hanno avvertito con urgenza la necessità di interrogarsi sull’impatto delle trasformazioni socioeconomiche in corso e di riflettere sui possibili scenari sociali che sarebbero stati dischiusi dal nuovo ordine mondiale, contrassegnato per un verso dalla progressiva estinzione del lavoro salariato e, per un altro, dalla messa in circolazione di una sempre maggiore quantità di tempo libero a disposizione degli individui e della collettività. Società del rischio[3. Cfr. U. Beck, La società del rischio, trad. it. a cura di W. Privitera e C. Sandrelli, Carocci, Roma 2000 .], Kulturgesellschaft [4. Cfr. A. Gorz, Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, trad. it. di S. Musso, Bollati Boringhieri, Milano 1992, p. 199.], società postindustriale[5. D. Bell, The coming of post-industrial society: a venture in social forecasting, Basic Books, New York 1973 .] sono categorie che esprimono, pur nella differenza di accenti, un presupposto essenziale comune: la consapevolezza della fine de «l’esperienza sociale fondamentale del lavoro», per dirla con le parole di Ulrich Beck[6. U. Beck, La società del rischio, cit., p. 200.], e la constatazione di una conseguente trasformazione sistemica della società, tanto a livello economico, quanto a livello politico, culturale e antropologico – che avrebbe dischiuso una nuova fase storica in cui «le macchine sostituiranno sempre più il lavoro umano nella produzione di beni e servizi»[7. J. Rifkin, La fine del lavoro: il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era postmercato, trad. it. di P. Canton, Mondadori, Milano 2002, p. 457. Diversamente da Rifkin, il sociologo M. Castells ritiene che la nuova morfologia sociale determinata dalla rete e dalla diffusione delle tecnologie dell’informazione produca l’abbandono progressivo di mansioni e impieghi diventati obsoleti, ma generi al tempo stesso la nascita di nuovi lavori e nuova occupazione su scala mondiale, scongiurando il rischio della disoccupazione di massa paventato da Rifkin. Si veda M. Castells, La nascita della societa in rete, trad. it. di L. Turchet, Università Bocconi editore, Milano 2002.] . Nelle pagine che seguono si tenterà di riflettere criticamente sull’ipotesi della ‘fine del lavoro’ concentrandosi su alcuni dei contributi più significativi che hanno alimentato il dibattito internazionale degli ultimi vent’anni. L’orizzonte preliminare del nostro approfondimento sarà una disamina della categoria di lavoro messa in campo nelle teorie della fine del lavoro, condotta con l’obiettivo di riposizionare tale categoria in relazione ai meccanismi di accumulazione del capitale. In un secondo momento si cercherà di ragionare sulla validità del paradigma postfordista concentrandosi sull’analisi – circoscritta e non esaustiva – di alcune teorie del capitalismo cognitivo e del lavoro immateriale elaborate in ambito neo-operaista. L’intento è quello di indagare la possibilità di rendere conto delle “metamorfosi del lavoro”[8. È il titolo del volume di A. Gorz citato nella nota 4.] nel quadro di una lettura continuista delle trasformazioni socioeconomiche avvenute nel corso dell’ultimo trentennio. In questa ottica, introducendo la nozione di iperfordismo, verificheremo l’ipotesi di poter interpretare tali trasformazioni non come il frutto di un’inversione di tendenza lungo la linea di espansione del capitalismo fordista, bensì come l’esito di un processo ciclico di complessificazione e approfondimento di esso dissimulato dai dispositivi feticistici della produzione capitalistica contemporanea.
SE - 2-3/2010
DA - 2010
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Arendt individuava in questo mutamento rivoluzionario una meta auspicabile – nella misura in cui avrebbe costituito il culmine del processo di liberazione dell’umanità dalle “pastoie del lavoro” – e insieme un traguardo pericoloso che avrebbe obbligato gli individui, affrancati dalla condizione dell’animal laborans, a confrontarsi con la perdita dell’unica attività capace di restituire loro una fisionomia sociale e a fronteggiare la minaccia dell’alienazione nel consumo[2. Ibid .]. A distanza di qualche decennio, negli anni ’80-’90, il dibattito sulla fine del lavoro è tornato in auge in risposta ai cambiamenti generati dalla cosiddetta “terza rivoluzione industriale” innescata dallo sviluppo dell’informatica e dell’elettronica digitale e dall’avvio del ciclo postfordista. Il tema del futuro del lavoro e delle sorti della società postindustriale si è imposto all’attenzione della filosofia, dell’economia, della sociologia nell’opera di quanti hanno avvertito con urgenza la necessità di interrogarsi sull’impatto delle trasformazioni socioeconomiche in corso e di riflettere sui possibili scenari sociali che sarebbero stati dischiusi dal nuovo ordine mondiale, contrassegnato per un verso dalla progressiva estinzione del lavoro salariato e, per un altro, dalla messa in circolazione di una sempre maggiore quantità di tempo libero a disposizione degli individui e della collettività. Società del rischio[3. Cfr. U. Beck, La società del rischio, trad. it. a cura di W. Privitera e C. Sandrelli, Carocci, Roma 2000 .], Kulturgesellschaft [4. Cfr. A. Gorz, Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, trad. it. di S. Musso, Bollati Boringhieri, Milano 1992, p. 199.], società postindustriale[5. D. Bell, The coming of post-industrial society: a venture in social forecasting, Basic Books, New York 1973 .] sono categorie che esprimono, pur nella differenza di accenti, un presupposto essenziale comune: la consapevolezza della fine de «l’esperienza sociale fondamentale del lavoro», per dirla con le parole di Ulrich Beck[6. U. Beck, La società del rischio, cit., p. 200.], e la constatazione di una conseguente trasformazione sistemica della società, tanto a livello economico, quanto a livello politico, culturale e antropologico – che avrebbe dischiuso una nuova fase storica in cui «le macchine sostituiranno sempre più il lavoro umano nella produzione di beni e servizi»[7. J. Rifkin, La fine del lavoro: il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era postmercato, trad. it. di P. Canton, Mondadori, Milano 2002, p. 457. Diversamente da Rifkin, il sociologo M. Castells ritiene che la nuova morfologia sociale determinata dalla rete e dalla diffusione delle tecnologie dell’informazione produca l’abbandono progressivo di mansioni e impieghi diventati obsoleti, ma generi al tempo stesso la nascita di nuovi lavori e nuova occupazione su scala mondiale, scongiurando il rischio della disoccupazione di massa paventato da Rifkin. Si veda M. Castells, La nascita della societa in rete, trad. it. di L. Turchet, Università Bocconi editore, Milano 2002.] . Nelle pagine che seguono si tenterà di riflettere criticamente sull’ipotesi della ‘fine del lavoro’ concentrandosi su alcuni dei contributi più significativi che hanno alimentato il dibattito internazionale degli ultimi vent’anni. L’orizzonte preliminare del nostro approfondimento sarà una disamina della categoria di lavoro messa in campo nelle teorie della fine del lavoro, condotta con l’obiettivo di riposizionare tale categoria in relazione ai meccanismi di accumulazione del capitale. In un secondo momento si cercherà di ragionare sulla validità del paradigma postfordista concentrandosi sull’analisi – circoscritta e non esaustiva – di alcune teorie del capitalismo cognitivo e del lavoro immateriale elaborate in ambito neo-operaista. L’intento è quello di indagare la possibilità di rendere conto delle “metamorfosi del lavoro”[8. È il titolo del volume di A. Gorz citato nella nota 4.] nel quadro di una lettura continuista delle trasformazioni socioeconomiche avvenute nel corso dell’ultimo trentennio. In questa ottica, introducendo la nozione di iperfordismo, verificheremo l’ipotesi di poter interpretare tali trasformazioni non come il frutto di un’inversione di tendenza lungo la linea di espansione del capitalismo fordista, bensì come l’esito di un processo ciclico di complessificazione e approfondimento di esso dissimulato dai dispositivi feticistici della produzione capitalistica contemporanea.}
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