Negli ultimi scritti della serie Homo sacer Agamben afferma di aver intrapreso una ricerca dedicata alla ‘forma-di-vita’ e all’‘uso’, in cui il significato «dell’inoperosità come prassi propriamente umana e politica potrà apparire nella sua luce propria»1. La nozione di inoperosità compare nella strategia della critica agambeniana ai ‘dispositivi di potere’ contemporaneamente alla tematizzazione della biopolitica, con l’avvio del progetto Homo sacer (1995), ma emerge come vero e proprio cardine dell’indagine archeologica solo negli ultimi anni, in modo esplicito a partire da Il Regno e la Gloria (2007). Con questo testo, scrive Agamben, «l’inchiesta sulla genealogia […] del potere in Occidente cominciata […] con Homo sacer giunge a uno snodo in ogni senso decisivo»2. Esso consiste nella riconduzione della doppia struttura del biopolitico, della ‘inclusione esclusiva’ del potere e della vita descritta nei volumi precedenti, alla sua ‘soglia di articolazione’, indicata nella relazione fra oikonomia e ‘gloria’ — ma anche il consenso, o lo spettacolo. È questo riferimento che rivela, secondo l’autore, in ogni ‘operazione’ di potere un’‘inoperosità’ centrale, rendendo possibile una disattivazione dei dispositivi che consista nell’aprirli a un ‘nuovo uso’, quale viene elaborata attraverso il paradigma dell’in-operosità nei suoi scritti più recenti. Nel primo volume della serie Homo sacer, Il potere sovrano e la nuda vita, la nozione è discussa in modo soltanto problematico, in riferimento al dibattito francese contemporaneo sul désœuvrement, ma in generale nel testo la forma di un agire sottratto alla biopolitica non si lascia decifrare chiaramente. La messa in luce dell’inclusione esclusiva fra la legge e la vita, quale funzionamento nascosto del potere in Occidente, permette di mostrare come questo non abbia alcuna natura sostanziale, ne legittima una disattivazione, in quanto al contempo fa segno al di là di esse, verso una prassi radicalmente anomica, che trova però nel testo una formulazione soltanto negativa. L’elaborazione originale del tema dell’inoperosità, di una prassi inoperosa, prende avvio con un primo slittamento nel discorso agambeniano nel periodo di pubblicazione di Stato di eccezione (2003), e consiste in una riformulazione del rapporto fra legge e vita a partire dalla ‘medialità pura’ dell’agire, quale ripresa e sviluppo della meditazione di Walter Benjamin. È questo approfondimento che prelude alla diversa descrizione del dispositivo di potere de Il Regno e la Gloria. Il suo funzionamento non si rivela nel testo a partire da uno spazio vuoto che eccede il potere e la vita, il loro rapporto è ricondotto alla correlazione di ‘economia’ e ‘gloria’ come alla sua soglia di articolazione, in quanto essa si mostra come la dimensione intermedia, insostanziale, in cui si producono insieme la loro correlazione e la loro separazione, rivela il configurarsi di ogni ‘funzione’ di potere in riferimento costitutivo alla sua ‘sospensione’, e legittima così una disattivazione dei dispositivi che li apre, al contempo, ad un ‘nuovo uso’, una prassi in cui si rivela una «inoperosità interna, per così dire, alla stessa operazione»3. La ricostruzione dell’elaborazione del paradigma dell’inoperosità nel percorso di Agamben dovrà permettere di sottoporre a una considerazione critica la sua ultima connotazione, di vagliare la sua capacità di proporsi come una disattivazione dei dispositivi di potere che non si riduce a contrappunto dialettico dell’economia funzionale, né a una concettualizzazione dell’impasse che caratterizza la situazione politica del presente.
G. Agamben, Il Regno e la Gloria, Neri Pozza, Vicenza 2007, p. 11. ↩
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TY - JOUR
A1 - Bonacci, Valeria
PY - 2010
TI - INOPEROSITÀ IN GIORGIO AGAMBEN
JO - Plemos
SN - 8890413611/2281-9517
AB - Negli ultimi scritti della serie Homo sacer Agamben afferma di aver intrapreso una ricerca dedicata alla ‘forma-di-vita’ e all’‘uso’, in cui il significato «dell’inoperosità come prassi propriamente umana e politica potrà apparire nella sua luce propria»[1. G. Agamben, Il Regno e la Gloria, Neri Pozza, Vicenza 2007, p. 11.]. La nozione di inoperosità compare nella strategia della critica agambeniana ai ‘dispositivi di potere’ contemporaneamente alla tematizzazione della biopolitica, con l’avvio del progetto Homo sacer (1995), ma emerge come vero e proprio cardine dell’indagine archeologica solo negli ultimi anni, in modo esplicito a partire da Il Regno e la Gloria (2007). Con questo testo, scrive Agamben, «l’inchiesta sulla genealogia […] del potere in Occidente cominciata […] con Homo sacer giunge a uno snodo in ogni senso decisivo»[2. Ivi, p. 9.]. Esso consiste nella riconduzione della doppia struttura del biopolitico, della ‘inclusione esclusiva’ del potere e della vita descritta nei volumi precedenti, alla sua ‘soglia di articolazione’, indicata nella relazione fra oikonomia e ‘gloria’ — ma anche il consenso, o lo spettacolo. È questo riferimento che rivela, secondo l’autore, in ogni ‘operazione’ di potere un’‘inoperosità’ centrale, rendendo possibile una disattivazione dei dispositivi che consista nell’aprirli a un ‘nuovo uso’, quale viene elaborata attraverso il paradigma dell’in-operosità nei suoi scritti più recenti. Nel primo volume della serie Homo sacer, Il potere sovrano e la nuda vita, la nozione è discussa in modo soltanto problematico, in riferimento al dibattito francese contemporaneo sul désœuvrement, ma in generale nel testo la forma di un agire sottratto alla biopolitica non si lascia decifrare chiaramente. La messa in luce dell’inclusione esclusiva fra la legge e la vita, quale funzionamento nascosto del potere in Occidente, permette di mostrare come questo non abbia alcuna natura sostanziale, ne legittima una disattivazione, in quanto al contempo fa segno al di là di esse, verso una prassi radicalmente anomica, che trova però nel testo una formulazione soltanto negativa. L’elaborazione originale del tema dell’inoperosità, di una prassi inoperosa, prende avvio con un primo slittamento nel discorso agambeniano nel periodo di pubblicazione di Stato di eccezione (2003), e consiste in una riformulazione del rapporto fra legge e vita a partire dalla ‘medialità pura’ dell’agire, quale ripresa e sviluppo della meditazione di Walter Benjamin. È questo approfondimento che prelude alla diversa descrizione del dispositivo di potere de Il Regno e la Gloria. Il suo funzionamento non si rivela nel testo a partire da uno spazio vuoto che eccede il potere e la vita, il loro rapporto è ricondotto alla correlazione di ‘economia’ e ‘gloria’ come alla sua soglia di articolazione, in quanto essa si mostra come la dimensione intermedia, insostanziale, in cui si producono insieme la loro correlazione e la loro separazione, rivela il configurarsi di ogni ‘funzione’ di potere in riferimento costitutivo alla sua ‘sospensione’, e legittima così una disattivazione dei dispositivi che li apre, al contempo, ad un ‘nuovo uso’, una prassi in cui si rivela una «inoperosità interna, per così dire, alla stessa operazione»[3. Ivi, p. 274.]. La ricostruzione dell’elaborazione del paradigma dell’inoperosità nel percorso di Agamben dovrà permettere di sottoporre a una considerazione critica la sua ultima connotazione, di vagliare la sua capacità di proporsi come una disattivazione dei dispositivi di potere che non si riduce a contrappunto dialettico dell’economia funzionale, né a una concettualizzazione dell’impasse che caratterizza la situazione politica del presente.
SE - 2-3/2010
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