«I greci […] immaginavano il divino il più possibile lontano da sé, tutto il mondo degli dei era soltanto un mezzo per allontanare l’elemento decisivo dal corpo terreno, per dare aria al respiro umano».
(Franz Kafka, lettera a Max Brod del 7 agosto 1920)
Una delle movenze essenziali dell’interpretazione che Heidegger ci offre della poesia di Hölderlin va sicuramente nella direzione del ribadire che in essa non troviamo «la tendenza a specchiarsi», l’espressione più o meno immediata di un circoscritto vissuto personale, ma, al contrario, l’anticipante e profonda comprensione della nostra epoca1. Proprio un’esperienza unica dell’«inizio» greco porterebbe Hölderlin a intendere il suo, e ancora nostro presente, come «fine dell’Occidente». L’interrogarsi sulla «transustanziazione», sulla metamorfosi della grecità nel nostro tempo verrebbe inoltre a legarsi – è questa un’altra indicazione decisiva della lettura heideggeriana – al tentativo di dar parola direttamente al compito della poesia, ovvero a chiedersi: «perché i poeti in un tempo di povertà?». Quel che in questo modo emerge è un annodarsi reciproco tra l’apertura storica, la ricerca, attraverso la figura del poeta, di una nuova dimensione della soggettività, e lo sforzo di precisazione della legge del canto poetico. Pur mantenendomi ai margini dell’incontro ermeneutico tra Heidegger e Hölderlin, ed evitando di percorrerne direttamente le illuminanti aporie, vorrei accogliere queste indicazioni e quindi assumere le tre polarità della storia, del soggetto e del ruolo della poesia, come la forma immanente a cui tendere per individuare un possibile accesso all’opera hölderliniana, a uno dei nuclei profondi della sua problematica originaria. Il mio proposito principale sarà quello di individuare i tratti essenziali di una filosofia della storia che dall’Iperione alla soglia dei grandi inni viene a svilupparsi in un costante approfondimento di immagini e motivi. È a tutti noto l’atteggiamento di Hölderlin verso la rivoluzione francese e il suo particolare rapporto con i problemi anche politici della sua epoca; la volontà di distacco da quest’ultima non vuole essere certamente la fuga in un mondo mitico separato dalla realtà, ma assume la valenza critica della non accettazione di una situazione storica che si vorrebbe radicalmente trasformata. Non sempre si tiene sufficientemente conto di questo aspetto2.
Spesso, in effetti, si tende ad indicare come nota dominante, soprattutto del primo Hölderlin, l’impulso a ricongiungersi con l’Uno-Tutto, il desiderio di annullamento nella natura intesa come dimensione onnipresente e onniavvolgente, verso la quale l’individuale è costretto a sentire un’attrazione che non può non diventare volontà di dissolvimento, spinta ad uscire dalla propria definita configurazione3. Quel che vorrei in proposito mostrare è che, considerata da vicino, l’opera hölderliniana appare mal sopportare generiche definizioni di panteismo e di comunione mistica col tutto. Essa certamente si muove dentro la tematica del rapporto dell’uomo con la natura infinita, o, come profondamente intuisce Benjamin, ruota attorno al problema fondamentale del conflitto tra il momento «orientale» dell’illimitato e il «fenomeno delimitato dalla propria forma in quiete e in sé conchiusa»; ma proprio la centralità di questa contrapposizione induce Hölderlin a darne formulazioni non schematiche e costantemente rinnovantesi 4. Vorrei assumere come punto di partenza per una ricognizione sulla tensione tra i poli della natura e della storia nell’itinerario hölderliniano proprio la Prefazione alla penultima stesura dell’Iperione, la quale, parlando della «traiettoria eccentrica» che gli uomini debbono necessariamente percorrere dalla fanciullezza al compimento, sembra prospettare una parabola tipica: da una originaria unità ad una condizione di distacco, di «disaccordo con la natura», ad una conclusiva riunificazione, ad un finale ricongiungimento con l’essere infinito5. L’andamento triadico, così diffuso nelle filosofie della storia, appare allora riproporsi in uno scandirsi del processo storico da una fase di armonia e presenza degli dèi, rappresentata dal mondo greco, ad un’epoca di indigenza, la nostra, fino ad un necessario, e quindi teleologico ritorno del divino. Detto tra parentesi, la posizione della natura, il suo ruolo nella fase del compimento, appare qui configurarsi in modo tale da collocare Hölderlin in una particolare vicinanza con Schelling, in un momento in cui, del resto, l’altro grande interlocutore, Hegel, è ancora lontano dall’aver trovato una definitiva originalità speculativa6. Tuttavia, prescindendo dal confronto con Schelling, il vero profilo dell’argomentazione di Hölderlin viene a rivelarsi solo quando, nel corso della medesima Prefazione, egli arriva a dire: «la linea definita si unifica a quella indefinita solo in un’approssimazione infinita», affermando così che per il nostro sapere e il nostro agire «in qualunque epoca», la «pace di tutte le paci», il luogo «dove cessa il contrasto, dove tutto è uno», non è direttamente attingibile[ 7. F. Hölderlin, Prefazione alla penultima stesura dell’Iperione, cit., p. 56 (in SW, cit., p. 686).]. Il valore di queste espressioni hölderliniane può venir pienamente apprezzato qualora si tenga presente che in questo modo il compimento viene ad assumere una funzione diversa da quella che le contemporanee filosofie della storia giungono ad affidargli. Esso non assurge a principio finale a partire dal quale soltanto è consentita una comprensione razionale dell’accadere e diventa possibile ripercorrerne l’intero processo e afferrarne il senso. Hölderlin cerca qualcosa di diverso; non aspira ad una visione che individui un fine della storia, ma piuttosto ad incontrare la «pace infinita» qui ed ora, perché solo così gli uomini potranno trovare un orientamento per la loro vita, la fonte autentica del loro pensare ed agire. Sarà la dimensione estetica a poter soddisfare questo intento. Solo essa è capace, nel “non ancora” di una qualsiasi realtà determinata, di assicurare il «momento divino», il segreto incontro con la natura. Solo su di essa, sulla bellezza prodotta o riconosciuta, si fonderà la certezza di un nuovo ordine futuro che, oltre la separazione, assicuri all’umanità la riconciliazione con la infinità naturale.
Oltre alla raccolta di saggi e conferenze Erleuterungen zu Hölderlins Dichtung, Klostermann, Frankfurt am Main 1981 (trad. it. M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988), dell’incontro heideggeriano con Hölderlin abbiamo le lezioni del semestre invernale 1934-1935 dedicato agli inni Germanien e Der Rhein (Bd. 39 Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt am Main 1980), il corso del semestre invernale 1941-1942 sull’inno Andenken (Bd 52 Gesamtausgabe, cit., 1982), e il corso del semestre estivo del 1942 sull’inno Der Ister (Bd 53 Gesamtausgabe, cit., 1983). ↩
Abbiamo, invece, un’attenta valutazione delle componenti storico-politiche della poesia diHölderlin in: G. Scimonello, Hölderlin e l’utopia, Aion Quaderni degli annali dell’Istituto Universitario orientale di Napoli 1976, e in Id., Introduzione a Hölderlin, Iperione o l’eremita in Grecia, Studio Tesi, Pordenone 1989. Il lavoro critico che costituisce il punto di riferimento obbligato sul problema del rapporto di Hölderlin con il proprio tempo è P. Bertaux, Hölderlin und Die Französische Revolution, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1969. ↩
Pur in un lavoro interpretativo di grande valore, sembra essere questa la posizione di fondo in G. Vigolo, Saggio introduttivo a F. Hölderlin, Poesie, Einaudi, Torino 1982. ↩
W. Benjamin, Due poesie di Hölderlin, in Id., Metafisica della gioventù, (trad. it. Einaudi, Torino 1982 p. 132). Per una interpretazione del rapporto di Benjamin con Hölderlin mi sia consentito rinviare a P. Vinci, La critica e le forme, in «Almanacchi nuovi», Lithos, Roma, anno I, n. 1, aprile 1996, pp. 43-67. ↩
F. Hölderlin, Prefazione alla penultima stesura dell’Iperione, in Id., Scritti di estetica, trad. it. Se, Milano 1987 pp. 55-56 (F. Hölderlin, Sämtliche Werke, Insel Verlag, Leipzig 1961, pp. 684-686). ↩
Per un ravvicinato confronto sulla questione del tragico in Hölderlin e Schelling cfr. F. Moiso, Vita natura e libertà. Schelling (1795-1809), Mursia, Milano 1990, pp. 135-199. ↩
Vinci, Paolo."IL LINGUAGGIO TRAGICO DELLA STORIA IN HÖLDERLIN". PólemosVI. 4-5. (2011): 11-24https://www.rivistapolemos.it/il-linguaggio-tragico-della-storia-in-ho%cc%88lderlin/?lang=it
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Vinci, P.(2011). "IL LINGUAGGIO TRAGICO DELLA STORIA IN HÖLDERLIN". PólemosVI. (4-5). 11-24https://www.rivistapolemos.it/il-linguaggio-tragico-della-storia-in-ho%cc%88lderlin/?lang=it
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Vinci, Paolo.2011. "IL LINGUAGGIO TRAGICO DELLA STORIA IN HÖLDERLIN". PólemosVI (4-5). Donzelli Editore: 11-24. https://www.rivistapolemos.it/il-linguaggio-tragico-della-storia-in-ho%cc%88lderlin/?lang=it
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A1 - Vinci, Paolo
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TI - IL LINGUAGGIO TRAGICO DELLA STORIA IN HÖLDERLIN
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(Franz Kafka, lettera a Max Brod del 7 agosto 1920)
Una delle movenze essenziali dell’interpretazione che Heidegger ci offre della poesia di Hölderlin va sicuramente nella direzione del ribadire che in essa non troviamo «la tendenza a specchiarsi», l’espressione più o meno immediata di un circoscritto vissuto personale, ma, al contrario, l’anticipante e profonda comprensione della nostra epoca[1. Oltre alla raccolta di saggi e conferenze Erleuterungen zu Hölderlins Dichtung, Klostermann, Frankfurt am Main 1981 (trad. it. M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988), dell’incontro heideggeriano con Hölderlin abbiamo le lezioni del semestre invernale 1934-1935 dedicato agli inni Germanien e Der Rhein (Bd. 39 Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt am Main 1980), il corso del semestre invernale 1941-1942 sull’inno Andenken (Bd 52 Gesamtausgabe, cit., 1982), e il corso del semestre estivo del 1942 sull’inno Der Ister (Bd 53 Gesamtausgabe, cit., 1983).]. Proprio un’esperienza unica dell’«inizio» greco porterebbe Hölderlin a intendere il suo, e ancora nostro presente, come «fine dell’Occidente». L’interrogarsi sulla «transustanziazione», sulla metamorfosi della grecità nel nostro tempo verrebbe inoltre a legarsi – è questa un’altra indicazione decisiva della lettura heideggeriana – al tentativo di dar parola direttamente al compito della poesia, ovvero a chiedersi: «perché i poeti in un tempo di povertà?». Quel che in questo modo emerge è un annodarsi reciproco tra l’apertura storica, la ricerca, attraverso la figura del poeta, di una nuova dimensione della soggettività, e lo sforzo di precisazione della legge del canto poetico. Pur mantenendomi ai margini dell’incontro ermeneutico tra Heidegger e Hölderlin, ed evitando di percorrerne direttamente le illuminanti aporie, vorrei accogliere queste indicazioni e quindi assumere le tre polarità della storia, del soggetto e del ruolo della poesia, come la forma immanente a cui tendere per individuare un possibile accesso all’opera hölderliniana, a uno dei nuclei profondi della sua problematica originaria. Il mio proposito principale sarà quello di individuare i tratti essenziali di una filosofia della storia che dall’Iperione alla soglia dei grandi inni viene a svilupparsi in un costante approfondimento di immagini e motivi. È a tutti noto l’atteggiamento di Hölderlin verso la rivoluzione francese e il suo particolare rapporto con i problemi anche politici della sua epoca; la volontà di distacco da quest’ultima non vuole essere certamente la fuga in un mondo mitico separato dalla realtà, ma assume la valenza critica della non accettazione di una situazione storica che si vorrebbe radicalmente trasformata. Non sempre si tiene sufficientemente conto di questo aspetto[2. Abbiamo, invece, un’attenta valutazione delle componenti storico-politiche della poesia diHölderlin in: G. Scimonello, Hölderlin e l’utopia, Aion Quaderni degli annali dell’Istituto Universitario orientale di Napoli 1976, e in Id., Introduzione a Hölderlin, Iperione o l’eremita in Grecia, Studio Tesi, Pordenone 1989. Il lavoro critico che costituisce il punto di riferimento obbligato sul problema del rapporto di Hölderlin con il proprio tempo è P. Bertaux, Hölderlin und Die Französische Revolution, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1969.].
Spesso, in effetti, si tende ad indicare come nota dominante, soprattutto del primo Hölderlin, l’impulso a ricongiungersi con l’Uno-Tutto, il desiderio di annullamento nella natura intesa come dimensione onnipresente e onniavvolgente, verso la quale l’individuale è costretto a sentire un’attrazione che non può non diventare volontà di dissolvimento, spinta ad uscire dalla propria definita configurazione[3. Pur in un lavoro interpretativo di grande valore, sembra essere questa la posizione di fondo in G. Vigolo, Saggio introduttivo a F. Hölderlin, Poesie, Einaudi, Torino 1982.]. Quel che vorrei in proposito mostrare è che, considerata da vicino, l’opera hölderliniana appare mal sopportare generiche definizioni di panteismo e di comunione mistica col tutto. Essa certamente si muove dentro la tematica del rapporto dell’uomo con la natura infinita, o, come profondamente intuisce Benjamin, ruota attorno al problema fondamentale del conflitto tra il momento «orientale» dell’illimitato e il «fenomeno delimitato dalla propria forma in quiete e in sé conchiusa»; ma proprio la centralità di questa contrapposizione induce Hölderlin a darne formulazioni non schematiche e costantemente rinnovantesi [4. W. Benjamin, Due poesie di Hölderlin, in Id., Metafisica della gioventù, (trad. it. Einaudi, Torino 1982 p. 132). Per una interpretazione del rapporto di Benjamin con Hölderlin mi sia consentito rinviare a P. Vinci, La critica e le forme, in «Almanacchi nuovi», Lithos, Roma, anno I, n. 1, aprile 1996, pp. 43-67.]. Vorrei assumere come punto di partenza per una ricognizione sulla tensione tra i poli della natura e della storia nell’itinerario hölderliniano proprio la Prefazione alla penultima stesura dell’Iperione, la quale, parlando della «traiettoria eccentrica» che gli uomini debbono necessariamente percorrere dalla fanciullezza al compimento, sembra prospettare una parabola tipica: da una originaria unità ad una condizione di distacco, di «disaccordo con la natura», ad una conclusiva riunificazione, ad un finale ricongiungimento con l’essere infinito[5. F. Hölderlin, Prefazione alla penultima stesura dell’Iperione, in Id., Scritti di estetica, trad. it. Se, Milano 1987 pp. 55-56 (F. Hölderlin, Sämtliche Werke, Insel Verlag, Leipzig 1961, pp. 684-686).]. L’andamento triadico, così diffuso nelle filosofie della storia, appare allora riproporsi in uno scandirsi del processo storico da una fase di armonia e presenza degli dèi, rappresentata dal mondo greco, ad un’epoca di indigenza, la nostra, fino ad un necessario, e quindi teleologico ritorno del divino. Detto tra parentesi, la posizione della natura, il suo ruolo nella fase del compimento, appare qui configurarsi in modo tale da collocare Hölderlin in una particolare vicinanza con Schelling, in un momento in cui, del resto, l’altro grande interlocutore, Hegel, è ancora lontano dall’aver trovato una definitiva originalità speculativa[6. Per un ravvicinato confronto sulla questione del tragico in Hölderlin e Schelling cfr. F. Moiso, Vita natura e libertà. Schelling (1795-1809), Mursia, Milano 1990, pp. 135-199.]. Tuttavia, prescindendo dal confronto con Schelling, il vero profilo dell’argomentazione di Hölderlin viene a rivelarsi solo quando, nel corso della medesima Prefazione, egli arriva a dire: «la linea definita si unifica a quella indefinita solo in un’approssimazione infinita», affermando così che per il nostro sapere e il nostro agire «in qualunque epoca», la «pace di tutte le paci», il luogo «dove cessa il contrasto, dove tutto è uno», non è direttamente attingibile[ 7. F. Hölderlin, Prefazione alla penultima stesura dell’Iperione, cit., p. 56 (in SW, cit., p. 686).]. Il valore di queste espressioni hölderliniane può venir pienamente apprezzato qualora si tenga presente che in questo modo il compimento viene ad assumere una funzione diversa da quella che le contemporanee filosofie della storia giungono ad affidargli. Esso non assurge a principio finale a partire dal quale soltanto è consentita una comprensione razionale dell’accadere e diventa possibile ripercorrerne l’intero processo e afferrarne il senso. Hölderlin cerca qualcosa di diverso; non aspira ad una visione che individui un fine della storia, ma piuttosto ad incontrare la «pace infinita» qui ed ora, perché solo così gli uomini potranno trovare un orientamento per la loro vita, la fonte autentica del loro pensare ed agire. Sarà la dimensione estetica a poter soddisfare questo intento. Solo essa è capace, nel “non ancora” di una qualsiasi realtà determinata, di assicurare il «momento divino», il segreto incontro con la natura. Solo su di essa, sulla bellezza prodotta o riconosciuta, si fonderà la certezza di un nuovo ordine futuro che, oltre la separazione, assicuri all’umanità la riconciliazione con la infinità naturale.
SE - 4-5/2011
DA - 2011
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Una delle movenze essenziali dell’interpretazione che Heidegger ci offre della poesia di Hölderlin va sicuramente nella direzione del ribadire che in essa non troviamo «la tendenza a specchiarsi», l’espressione più o meno immediata di un circoscritto vissuto personale, ma, al contrario, l’anticipante e profonda comprensione della nostra epoca[1. Oltre alla raccolta di saggi e conferenze Erleuterungen zu Hölderlins Dichtung, Klostermann, Frankfurt am Main 1981 (trad. it. M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988), dell’incontro heideggeriano con Hölderlin abbiamo le lezioni del semestre invernale 1934-1935 dedicato agli inni Germanien e Der Rhein (Bd. 39 Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt am Main 1980), il corso del semestre invernale 1941-1942 sull’inno Andenken (Bd 52 Gesamtausgabe, cit., 1982), e il corso del semestre estivo del 1942 sull’inno Der Ister (Bd 53 Gesamtausgabe, cit., 1983).]. Proprio un’esperienza unica dell’«inizio» greco porterebbe Hölderlin a intendere il suo, e ancora nostro presente, come «fine dell’Occidente». L’interrogarsi sulla «transustanziazione», sulla metamorfosi della grecità nel nostro tempo verrebbe inoltre a legarsi – è questa un’altra indicazione decisiva della lettura heideggeriana – al tentativo di dar parola direttamente al compito della poesia, ovvero a chiedersi: «perché i poeti in un tempo di povertà?». Quel che in questo modo emerge è un annodarsi reciproco tra l’apertura storica, la ricerca, attraverso la figura del poeta, di una nuova dimensione della soggettività, e lo sforzo di precisazione della legge del canto poetico. Pur mantenendomi ai margini dell’incontro ermeneutico tra Heidegger e Hölderlin, ed evitando di percorrerne direttamente le illuminanti aporie, vorrei accogliere queste indicazioni e quindi assumere le tre polarità della storia, del soggetto e del ruolo della poesia, come la forma immanente a cui tendere per individuare un possibile accesso all’opera hölderliniana, a uno dei nuclei profondi della sua problematica originaria. Il mio proposito principale sarà quello di individuare i tratti essenziali di una filosofia della storia che dall’Iperione alla soglia dei grandi inni viene a svilupparsi in un costante approfondimento di immagini e motivi. È a tutti noto l’atteggiamento di Hölderlin verso la rivoluzione francese e il suo particolare rapporto con i problemi anche politici della sua epoca; la volontà di distacco da quest’ultima non vuole essere certamente la fuga in un mondo mitico separato dalla realtà, ma assume la valenza critica della non accettazione di una situazione storica che si vorrebbe radicalmente trasformata. Non sempre si tiene sufficientemente conto di questo aspetto[2. Abbiamo, invece, un’attenta valutazione delle componenti storico-politiche della poesia diHölderlin in: G. Scimonello, Hölderlin e l’utopia, Aion Quaderni degli annali dell’Istituto Universitario orientale di Napoli 1976, e in Id., Introduzione a Hölderlin, Iperione o l’eremita in Grecia, Studio Tesi, Pordenone 1989. Il lavoro critico che costituisce il punto di riferimento obbligato sul problema del rapporto di Hölderlin con il proprio tempo è P. Bertaux, Hölderlin und Die Französische Revolution, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1969.].
Spesso, in effetti, si tende ad indicare come nota dominante, soprattutto del primo Hölderlin, l’impulso a ricongiungersi con l’Uno-Tutto, il desiderio di annullamento nella natura intesa come dimensione onnipresente e onniavvolgente, verso la quale l’individuale è costretto a sentire un’attrazione che non può non diventare volontà di dissolvimento, spinta ad uscire dalla propria definita configurazione[3. Pur in un lavoro interpretativo di grande valore, sembra essere questa la posizione di fondo in G. Vigolo, Saggio introduttivo a F. Hölderlin, Poesie, Einaudi, Torino 1982.]. Quel che vorrei in proposito mostrare è che, considerata da vicino, l’opera hölderliniana appare mal sopportare generiche definizioni di panteismo e di comunione mistica col tutto. Essa certamente si muove dentro la tematica del rapporto dell’uomo con la natura infinita, o, come profondamente intuisce Benjamin, ruota attorno al problema fondamentale del conflitto tra il momento «orientale» dell’illimitato e il «fenomeno delimitato dalla propria forma in quiete e in sé conchiusa»; ma proprio la centralità di questa contrapposizione induce Hölderlin a darne formulazioni non schematiche e costantemente rinnovantesi [4. W. Benjamin, Due poesie di Hölderlin, in Id., Metafisica della gioventù, (trad. it. Einaudi, Torino 1982 p. 132). Per una interpretazione del rapporto di Benjamin con Hölderlin mi sia consentito rinviare a P. Vinci, La critica e le forme, in «Almanacchi nuovi», Lithos, Roma, anno I, n. 1, aprile 1996, pp. 43-67.]. Vorrei assumere come punto di partenza per una ricognizione sulla tensione tra i poli della natura e della storia nell’itinerario hölderliniano proprio la Prefazione alla penultima stesura dell’Iperione, la quale, parlando della «traiettoria eccentrica» che gli uomini debbono necessariamente percorrere dalla fanciullezza al compimento, sembra prospettare una parabola tipica: da una originaria unità ad una condizione di distacco, di «disaccordo con la natura», ad una conclusiva riunificazione, ad un finale ricongiungimento con l’essere infinito[5. F. Hölderlin, Prefazione alla penultima stesura dell’Iperione, in Id., Scritti di estetica, trad. it. Se, Milano 1987 pp. 55-56 (F. Hölderlin, Sämtliche Werke, Insel Verlag, Leipzig 1961, pp. 684-686).]. L’andamento triadico, così diffuso nelle filosofie della storia, appare allora riproporsi in uno scandirsi del processo storico da una fase di armonia e presenza degli dèi, rappresentata dal mondo greco, ad un’epoca di indigenza, la nostra, fino ad un necessario, e quindi teleologico ritorno del divino. Detto tra parentesi, la posizione della natura, il suo ruolo nella fase del compimento, appare qui configurarsi in modo tale da collocare Hölderlin in una particolare vicinanza con Schelling, in un momento in cui, del resto, l’altro grande interlocutore, Hegel, è ancora lontano dall’aver trovato una definitiva originalità speculativa[6. Per un ravvicinato confronto sulla questione del tragico in Hölderlin e Schelling cfr. F. Moiso, Vita natura e libertà. Schelling (1795-1809), Mursia, Milano 1990, pp. 135-199.]. Tuttavia, prescindendo dal confronto con Schelling, il vero profilo dell’argomentazione di Hölderlin viene a rivelarsi solo quando, nel corso della medesima Prefazione, egli arriva a dire: «la linea definita si unifica a quella indefinita solo in un’approssimazione infinita», affermando così che per il nostro sapere e il nostro agire «in qualunque epoca», la «pace di tutte le paci», il luogo «dove cessa il contrasto, dove tutto è uno», non è direttamente attingibile[ 7. F. Hölderlin, Prefazione alla penultima stesura dell’Iperione, cit., p. 56 (in SW, cit., p. 686).]. Il valore di queste espressioni hölderliniane può venir pienamente apprezzato qualora si tenga presente che in questo modo il compimento viene ad assumere una funzione diversa da quella che le contemporanee filosofie della storia giungono ad affidargli. Esso non assurge a principio finale a partire dal quale soltanto è consentita una comprensione razionale dell’accadere e diventa possibile ripercorrerne l’intero processo e afferrarne il senso. Hölderlin cerca qualcosa di diverso; non aspira ad una visione che individui un fine della storia, ma piuttosto ad incontrare la «pace infinita» qui ed ora, perché solo così gli uomini potranno trovare un orientamento per la loro vita, la fonte autentica del loro pensare ed agire. Sarà la dimensione estetica a poter soddisfare questo intento. Solo essa è capace, nel “non ancora” di una qualsiasi realtà determinata, di assicurare il «momento divino», il segreto incontro con la natura. Solo su di essa, sulla bellezza prodotta o riconosciuta, si fonderà la certezza di un nuovo ordine futuro che, oltre la separazione, assicuri all’umanità la riconciliazione con la infinità naturale.}
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