Per numerosi aspetti il lungo lavoro di Michel Foucault rappresenta un tentativo di messa in scacco della filosofia della storia, perpetrato non in un campo di battaglia aperto, ma tramite una strategia di aggiramento che mira a configurare il suo intero lavoro non come un filosofare al di là della metafisica, ma al di fuori della metafisica, o addirittura un filosofare senza filosofia, senza tesi né sintesi, senza trascendentale né trascendenza, secondo un tipico movimento scettico di estraneità critica rispetto ai concetti della tradizione filosofica. Quest’affermazione, lungi dall’essere un’apologia estetizzante del discorso filosofico della postmodernità, si radica in una considerazione rispettosa della “lezione” foucaultiana e lontana dai riduzionismi che tendono alla sua reiscrizione nella tradizione, attribuendole una coerenza che, ancor prima di essere reperita, andrebbe tacciata come estranea al movimento di pensiero in questione. Foucault ha infatti mostrato bene come solo su queste premesse si possa fare un uso politico dei saperi, opposto a un trattamento per così dire colonizzatore dei discorsi, inevitabile allorché si riduce un “autore” al suo pensiero fondamentale, facendone il filosofo “della differenza”, “della discontinuità”, e così via, con l’ineluttabile conseguenza che «la riduzione nominalistica dell’esistente fa scaturire una verità costante»1. Nel presente articolo cercherò di enucleare gli aspetti che fanno di Foucault un pensatore post-metafisico, aspetti che, allo stesso tempo, caratterizzano il suo atteggiamento nei confronti della storia, poiché è sulla base di un rapporto rigoroso con essa, o meglio di una pratica rigorosa della storia, che egli ha costantemente costruito le sue analisi, le quali non possono definirsi né sociologiche, né filosofiche, né tantomeno antropologiche, bensì schiettamente storiche, in un senso che andrà chiarito. È infatti il calarsi decisamente e radicalmente nel piano d’immanenza della storia (come declinazione del prospettivismo nietzschieno) che permette a Foucault di abbandonare qualsiasi regime discorsivo di riferimento – che si tratti di una griglia d’intelligibilità di stampo teorico-politico simile a quella marxista o di una concezione teleologica del divenire alla Hegel – secondo un incedere che lo ha portato a mettere in discussione tutti i concetti sui quali si è imperniata la produzione intellettuale dell’Occidente, almeno da Socrate in poi, a partire da quelli di individuo, verità, uomo, razionalità. È per questo che, al di là del debito dichiarato nei confronti dell’epistemologia storica francese, l’unico filosofo da cui Foucault rivendica la filiazione è Nietzsche, l’anti-hegeliano (o il post-hegeliano) per eccellenza, il filosofo genealogista, dal quale trae l’idea fondamentale dell’origine non come Ursprung, ma come Herkunft (provenienza) e Entstehung (emergenza), proprio perché «il genealogista ha bisogno della storia per scongiurare la chimera dell’origine»2; là dove la differenza fra Ursprung e Herkunft è grossomodo la stessa che passa fra Adamo e la scimmia, mentre la distanza fra Ursprung e Entstehung è la stessa che intercorre fra l’Eden e il Madagascar paleolitico. Rispetto a Nietzsche però, Foucault opera un passo ulteriore per fuoriuscire dalla filosofia, andando nella direzione di una genealogia storica invece che verso una filosofia genealogica come quella sviluppata dal tedesco. Questo scarto non è irrilevante, poiché marca il passaggio da un’attitudine genealogica del pensiero a un’autentica pratica della genealogia, da una trasvalutazione totale dei valori che rischia di trasformarsi, per dirla con Heidegger, in un rovesciamento del platonismo3, a una pratica immanente alla storia che si esaurisce nella propria spinta critica – sebbene questa parola abbia notevoli connotazioni positive in Foucault – senza prolungarsi in una nuova posizione di valori. Posto dunque che per cogliere l’innovatività foucaultiana bisogna inoltrarsi nel territorio della genealogia, procederò a una disamina delle specificità di metodo applicate da Foucault prendendo come punti di riferimento tre figure concettuali a dominante storica sulle quali si articola la sua riflessione diagnostica, che individuerò nella critica della volontà di verità, nel materialismo dell’incorporeo e nell’ontologia dell’attualità. Queste tre figure, piuttosto che rappresentare tre “fasi” del cammino di Foucault, sono a mio avviso delle sue costanti, reperibili come linee di tendenza assunte dall’analisi nel proprio farsi, di modo che il rapporto tra l’analisi e il metodo risulta invertito: il metodo, esso stesso modellato sull’oggetto di cui si avanza questa gaia scienza che è la genealogia, non è al servizio dell’analisi ma la produce in maniera immanente.
M. Foucault, Nascita della clinica, Einaudi, Torino, 1998, p. 132. ↩
M. Foucault, «Nietzsche, la genealogia, la storia», in Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino, 2001, p. 47. ↩
M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano, 2005, p. 205; bisogna ricordare che Heidegger riconosce che per Nietzsche tale rovesciamento del platonismo «deve diventare uno svincolamento da esso» ibidem. ↩
Clarizio, Emanuele."FOUCAULT E LA CONTRO-STORIA DELLA VERITÀ". PólemosVI. 4-5. (2011): 236-243https://www.rivistapolemos.it/foucault-e-la-contro-storia-della-verita/?lang=it
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Clarizio, E.(2011). "FOUCAULT E LA CONTRO-STORIA DELLA VERITÀ". PólemosVI. (4-5). 236-243https://www.rivistapolemos.it/foucault-e-la-contro-storia-della-verita/?lang=it
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Clarizio, Emanuele.2011. "FOUCAULT E LA CONTRO-STORIA DELLA VERITÀ". PólemosVI (4-5). Donzelli Editore: 236-243. https://www.rivistapolemos.it/foucault-e-la-contro-storia-della-verita/?lang=it
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TY - JOUR
A1 - Clarizio, Emanuele
PY - 2011
TI - FOUCAULT E LA CONTRO-STORIA DELLA VERITÀ
JO - Plemos
SN - 9788890413650/2281-9517
AB - Per numerosi aspetti il lungo lavoro di Michel Foucault rappresenta un tentativo di messa in scacco della filosofia della storia, perpetrato non in un campo di battaglia aperto, ma tramite una strategia di aggiramento che mira a configurare il suo intero lavoro non come un filosofare al di là della metafisica, ma al di fuori della metafisica, o addirittura un filosofare senza filosofia, senza tesi né sintesi, senza trascendentale né trascendenza, secondo un tipico movimento scettico di estraneità critica rispetto ai concetti della tradizione filosofica. Quest’affermazione, lungi dall’essere un’apologia estetizzante del discorso filosofico della postmodernità, si radica in una considerazione rispettosa della “lezione” foucaultiana e lontana dai riduzionismi che tendono alla sua reiscrizione nella tradizione, attribuendole una coerenza che, ancor prima di essere reperita, andrebbe tacciata come estranea al movimento di pensiero in questione. Foucault ha infatti mostrato bene come solo su queste premesse si possa fare un uso politico dei saperi, opposto a un trattamento per così dire colonizzatore dei discorsi, inevitabile allorché si riduce un “autore” al suo pensiero fondamentale, facendone il filosofo “della differenza”, “della discontinuità”, e così via, con l’ineluttabile conseguenza che «la riduzione nominalistica dell’esistente fa scaturire una verità costante»[1. M. Foucault, Nascita della clinica, Einaudi, Torino, 1998, p. 132.]. Nel presente articolo cercherò di enucleare gli aspetti che fanno di Foucault un pensatore post-metafisico, aspetti che, allo stesso tempo, caratterizzano il suo atteggiamento nei confronti della storia, poiché è sulla base di un rapporto rigoroso con essa, o meglio di una pratica rigorosa della storia, che egli ha costantemente costruito le sue analisi, le quali non possono definirsi né sociologiche, né filosofiche, né tantomeno antropologiche, bensì schiettamente storiche, in un senso che andrà chiarito. È infatti il calarsi decisamente e radicalmente nel piano d’immanenza della storia (come declinazione del prospettivismo nietzschieno) che permette a Foucault di abbandonare qualsiasi regime discorsivo di riferimento – che si tratti di una griglia d’intelligibilità di stampo teorico-politico simile a quella marxista o di una concezione teleologica del divenire alla Hegel – secondo un incedere che lo ha portato a mettere in discussione tutti i concetti sui quali si è imperniata la produzione intellettuale dell’Occidente, almeno da Socrate in poi, a partire da quelli di individuo, verità, uomo, razionalità. È per questo che, al di là del debito dichiarato nei confronti dell’epistemologia storica francese, l’unico filosofo da cui Foucault rivendica la filiazione è Nietzsche, l’anti-hegeliano (o il post-hegeliano) per eccellenza, il filosofo genealogista, dal quale trae l’idea fondamentale dell’origine non come Ursprung, ma come Herkunft (provenienza) e Entstehung (emergenza), proprio perché «il genealogista ha bisogno della storia per scongiurare la chimera dell’origine»[2. M. Foucault, «Nietzsche, la genealogia, la storia», in Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino, 2001, p. 47.]; là dove la differenza fra Ursprung e Herkunft è grossomodo la stessa che passa fra Adamo e la scimmia, mentre la distanza fra Ursprung e Entstehung è la stessa che intercorre fra l’Eden e il Madagascar paleolitico. Rispetto a Nietzsche però, Foucault opera un passo ulteriore per fuoriuscire dalla filosofia, andando nella direzione di una genealogia storica invece che verso una filosofia genealogica come quella sviluppata dal tedesco. Questo scarto non è irrilevante, poiché marca il passaggio da un’attitudine genealogica del pensiero a un’autentica pratica della genealogia, da una trasvalutazione totale dei valori che rischia di trasformarsi, per dirla con Heidegger, in un rovesciamento del platonismo[3. M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano, 2005, p. 205; bisogna ricordare che Heidegger riconosce che per Nietzsche tale rovesciamento del platonismo «deve diventare uno svincolamento da esso» ibidem.], a una pratica immanente alla storia che si esaurisce nella propria spinta critica – sebbene questa parola abbia notevoli connotazioni positive in Foucault – senza prolungarsi in una nuova posizione di valori. Posto dunque che per cogliere l’innovatività foucaultiana bisogna inoltrarsi nel territorio della genealogia, procederò a una disamina delle specificità di metodo applicate da Foucault prendendo come punti di riferimento tre figure concettuali a dominante storica sulle quali si articola la sua riflessione diagnostica, che individuerò nella critica della volontà di verità, nel materialismo dell’incorporeo e nell’ontologia dell’attualità. Queste tre figure, piuttosto che rappresentare tre “fasi” del cammino di Foucault, sono a mio avviso delle sue costanti, reperibili come linee di tendenza assunte dall’analisi nel proprio farsi, di modo che il rapporto tra l’analisi e il metodo risulta invertito: il metodo, esso stesso modellato sull’oggetto di cui si avanza questa gaia scienza che è la genealogia, non è al servizio dell’analisi ma la produce in maniera immanente.
SE - 4-5/2011
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Foucault ha infatti mostrato bene come solo su queste premesse si possa fare un uso politico dei saperi, opposto a un trattamento per così dire colonizzatore dei discorsi, inevitabile allorché si riduce un “autore” al suo pensiero fondamentale, facendone il filosofo “della differenza”, “della discontinuità”, e così via, con l’ineluttabile conseguenza che «la riduzione nominalistica dell’esistente fa scaturire una verità costante»[1. M. Foucault, Nascita della clinica, Einaudi, Torino, 1998, p. 132.]. Nel presente articolo cercherò di enucleare gli aspetti che fanno di Foucault un pensatore post-metafisico, aspetti che, allo stesso tempo, caratterizzano il suo atteggiamento nei confronti della storia, poiché è sulla base di un rapporto rigoroso con essa, o meglio di una pratica rigorosa della storia, che egli ha costantemente costruito le sue analisi, le quali non possono definirsi né sociologiche, né filosofiche, né tantomeno antropologiche, bensì schiettamente storiche, in un senso che andrà chiarito. È infatti il calarsi decisamente e radicalmente nel piano d’immanenza della storia (come declinazione del prospettivismo nietzschieno) che permette a Foucault di abbandonare qualsiasi regime discorsivo di riferimento – che si tratti di una griglia d’intelligibilità di stampo teorico-politico simile a quella marxista o di una concezione teleologica del divenire alla Hegel – secondo un incedere che lo ha portato a mettere in discussione tutti i concetti sui quali si è imperniata la produzione intellettuale dell’Occidente, almeno da Socrate in poi, a partire da quelli di individuo, verità, uomo, razionalità. È per questo che, al di là del debito dichiarato nei confronti dell’epistemologia storica francese, l’unico filosofo da cui Foucault rivendica la filiazione è Nietzsche, l’anti-hegeliano (o il post-hegeliano) per eccellenza, il filosofo genealogista, dal quale trae l’idea fondamentale dell’origine non come Ursprung, ma come Herkunft (provenienza) e Entstehung (emergenza), proprio perché «il genealogista ha bisogno della storia per scongiurare la chimera dell’origine»[2. M. Foucault, «Nietzsche, la genealogia, la storia», in Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino, 2001, p. 47.]; là dove la differenza fra Ursprung e Herkunft è grossomodo la stessa che passa fra Adamo e la scimmia, mentre la distanza fra Ursprung e Entstehung è la stessa che intercorre fra l’Eden e il Madagascar paleolitico. Rispetto a Nietzsche però, Foucault opera un passo ulteriore per fuoriuscire dalla filosofia, andando nella direzione di una genealogia storica invece che verso una filosofia genealogica come quella sviluppata dal tedesco. Questo scarto non è irrilevante, poiché marca il passaggio da un’attitudine genealogica del pensiero a un’autentica pratica della genealogia, da una trasvalutazione totale dei valori che rischia di trasformarsi, per dirla con Heidegger, in un rovesciamento del platonismo[3. M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano, 2005, p. 205; bisogna ricordare che Heidegger riconosce che per Nietzsche tale rovesciamento del platonismo «deve diventare uno svincolamento da esso» ibidem.], a una pratica immanente alla storia che si esaurisce nella propria spinta critica – sebbene questa parola abbia notevoli connotazioni positive in Foucault – senza prolungarsi in una nuova posizione di valori. Posto dunque che per cogliere l’innovatività foucaultiana bisogna inoltrarsi nel territorio della genealogia, procederò a una disamina delle specificità di metodo applicate da Foucault prendendo come punti di riferimento tre figure concettuali a dominante storica sulle quali si articola la sua riflessione diagnostica, che individuerò nella critica della volontà di verità, nel materialismo dell’incorporeo e nell’ontologia dell’attualità. Queste tre figure, piuttosto che rappresentare tre “fasi” del cammino di Foucault, sono a mio avviso delle sue costanti, reperibili come linee di tendenza assunte dall’analisi nel proprio farsi, di modo che il rapporto tra l’analisi e il metodo risulta invertito: il metodo, esso stesso modellato sull’oggetto di cui si avanza questa gaia scienza che è la genealogia, non è al servizio dell’analisi ma la produce in maniera immanente.}
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