Trattare con la “pratica” del girovagare significa misurarsi con una dimensione dell’umano essere-nel-mondo che chiama in causa la sua istanza costitutiva: l’inquietudine che conduce il soggetto a non potersi posizionare se non in una ontologica gettatezza nello spazio multidirezionale del mondo. Il “sub- jectum” è sempre il soggetto della sua gettatezza: vale a dire che da un lato ne è soggetto – ovvero che si trova, fin dalla presa di coscienza del suo essere in un mondo, fin dalla nascita, da sempre gettato in esso, senza conoscenza della propria origine –, dall’altro che è precisamente in questa gettatezza, per utilizzare ancora il lessico heideggeriano, che il soggetto si riconosce come tale e pensa la fatticità di ogni sua progettazione. La parola francese flânerie abbraccia nella sua sfera semantica tutta la dinamica concettuale inscritta nel passare, nel passeggiare, nel girovagare, nell’andare a spasso. Il flâneur si fa un giro in città, senza che questo giro diventi mai una circolazione teleologicamente orientata o la struttura predefinita che avrà determinato il “passare” come l’intervallo spazio-temporale che separa un preciso punto di partenza e un premeditato punto di arrivo. Nella logica della flânerie, il “passare” non viene a giustapporsi e a ritradursi come il momento negativo di un dispiegamento dialettico che prelude e prepara l’arrivo inteso pertanto come realizzazione e giustificazione del cammino. Il travaglio di cui il passaggio ci parla dice qualcosa di profondamente diverso dall’idea di pensarlo quale un secondo momento funzionale al riassorbimento nella sintesi dell’arrivo. Il travaglio del passaggio è invero – e questa analisi intende percorrerne il movimento – ontologicamente insuperabile e perciò necessario; per anticipare il passo di Nancy in questa sede, si dica con lui che l’uomo vive di passaggio, en passant. Ho scelto di prendere le mosse dalla dinamica della flânerie, che Benjamin inserisce in un indice storico, recuperandola invece in una prospettiva teoretica come grimaldello esegetico al fine di approcciare un certo discorso sul nesso fra immaginazione e città operato da Jean-Luc Nancy. Il “lavoro” del passare avrà quindi a che fare con una certa inoperosità; il passaggio del passante senza origine né destinazione dice una decostruzione già da sempre in corso dell’assiomatica metafisica del viaggio come ciclo teso fra i due vettori dell’esilio e della riappropriazione del sé, come pratica sovrana del sé. Bandita ogni etica odisseica, il passo del passante si mostra anche come un pas (nella lingua francese “pas” significa sia “passo” che “non”); dice il “non” di un passo che va a oltre-passare la dinamica totalizzante del viaggio inteso su scala hegeliana, per intendersi. Il passo del passante resta sul limite del pensiero del passare, impone al pensiero una disattivazione dell’idea che passare significhi seguire un circuito progettato, fare opera di realizzazione, arrivare da qualche parte; così risemantizzato, il passo dirotta il sistema dell’iter funzionale, cambia strada repentinamente moltiplicando così i possibili della traversata e restituendo al mondo la sua vocazione al labirinto.
Uno scritto sull’inoperosa pratica del passare non potrà dunque, ad avviso di chi scrive, che dispiegarsi quale spazio di tempo d’uno scatto; questa superficie del testo bianco sulla quale scivola il flâneur sarà dunque lo spettro di incisione di un’impressione fotografica atta a ospitare, nell’istante del suo arrestarsi temporaneo, la necessità di un attraversamento e la dinamica del suo manifestarsi quale verità dello spazio urbano, dell’abitare e del vivere insieme, profonda domanda sulla comunità e sul modo d’essere del comune. Questo scatto quasi fotografico, che pare trattenere il “pas” del passante e del passaggio, cristallizza la liquidità scorrevole della flânerie, ma in questo dissimulare l’inarrestabile continuità del passare, esso denuncia ad un tempo la finzione della sua opera di blocco.
Bordoni, Giorgia."FENOMENOLOGIA DELLA FLÂNERIE. L’immagine della città come scena del politico tra Nancy e Derrida". PólemosVIII. 6-7. (2014): 217-235https://www.rivistapolemos.it/fenomenologia-della-fla%cc%82nerie-limmagine-della-citta-come-scena-del-politico-tra-nancy-e-derrida/?lang=it
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Bordoni, G.(2014). "FENOMENOLOGIA DELLA FLÂNERIE. L’immagine della città come scena del politico tra Nancy e Derrida". PólemosVIII. (6-7). 217-235https://www.rivistapolemos.it/fenomenologia-della-fla%cc%82nerie-limmagine-della-citta-come-scena-del-politico-tra-nancy-e-derrida/?lang=it
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Bordoni, Giorgia.2014. "FENOMENOLOGIA DELLA FLÂNERIE. L’immagine della città come scena del politico tra Nancy e Derrida". PólemosVIII (6-7). Donzelli Editore: 217-235. https://www.rivistapolemos.it/fenomenologia-della-fla%cc%82nerie-limmagine-della-citta-come-scena-del-politico-tra-nancy-e-derrida/?lang=it
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TY - JOUR
A1 - Bordoni, Giorgia
PY - 2014
TI - FENOMENOLOGIA DELLA FLÂNERIE. L’immagine della città come scena del politico tra Nancy e Derrida
JO - Plemos
SN - 9788898697243/2281-9517
AB -
Trattare con la “pratica” del girovagare significa misurarsi con una dimensione dell’umano essere-nel-mondo che chiama in causa la sua istanza costitutiva: l’inquietudine che conduce il soggetto a non potersi posizionare se non in una ontologica gettatezza nello spazio multidirezionale del mondo. Il “sub- jectum” è sempre il soggetto della sua gettatezza: vale a dire che da un lato ne è soggetto – ovvero che si trova, fin dalla presa di coscienza del suo essere in un mondo, fin dalla nascita, da sempre gettato in esso, senza conoscenza della propria origine –, dall’altro che è precisamente in questa gettatezza, per utilizzare ancora il lessico heideggeriano, che il soggetto si riconosce come tale e pensa la fatticità di ogni sua progettazione. La parola francese flânerie abbraccia nella sua sfera semantica tutta la dinamica concettuale inscritta nel passare, nel passeggiare, nel girovagare, nell’andare a spasso. Il flâneur si fa un giro in città, senza che questo giro diventi mai una circolazione teleologicamente orientata o la struttura predefinita che avrà determinato il “passare” come l’intervallo spazio-temporale che separa un preciso punto di partenza e un premeditato punto di arrivo. Nella logica della flânerie, il “passare” non viene a giustapporsi e a ritradursi come il momento negativo di un dispiegamento dialettico che prelude e prepara l’arrivo inteso pertanto come realizzazione e giustificazione del cammino. Il travaglio di cui il passaggio ci parla dice qualcosa di profondamente diverso dall’idea di pensarlo quale un secondo momento funzionale al riassorbimento nella sintesi dell’arrivo. Il travaglio del passaggio è invero – e questa analisi intende percorrerne il movimento – ontologicamente insuperabile e perciò necessario; per anticipare il passo di Nancy in questa sede, si dica con lui che l’uomo vive di passaggio, en passant. Ho scelto di prendere le mosse dalla dinamica della flânerie, che Benjamin inserisce in un indice storico, recuperandola invece in una prospettiva teoretica come grimaldello esegetico al fine di approcciare un certo discorso sul nesso fra immaginazione e città operato da Jean-Luc Nancy. Il “lavoro” del passare avrà quindi a che fare con una certa inoperosità; il passaggio del passante senza origine né destinazione dice una decostruzione già da sempre in corso dell’assiomatica metafisica del viaggio come ciclo teso fra i due vettori dell’esilio e della riappropriazione del sé, come pratica sovrana del sé. Bandita ogni etica odisseica, il passo del passante si mostra anche come un pas (nella lingua francese “pas” significa sia “passo” che “non”); dice il “non” di un passo che va a oltre-passare la dinamica totalizzante del viaggio inteso su scala hegeliana, per intendersi. Il passo del passante resta sul limite del pensiero del passare, impone al pensiero una disattivazione dell’idea che passare significhi seguire un circuito progettato, fare opera di realizzazione, arrivare da qualche parte; così risemantizzato, il passo dirotta il sistema dell’iter funzionale, cambia strada repentinamente moltiplicando così i possibili della traversata e restituendo al mondo la sua vocazione al labirinto.
Uno scritto sull’inoperosa pratica del passare non potrà dunque, ad avviso di chi scrive, che dispiegarsi quale spazio di tempo d’uno scatto; questa superficie del testo bianco sulla quale scivola il flâneur sarà dunque lo spettro di incisione di un’impressione fotografica atta a ospitare, nell’istante del suo arrestarsi temporaneo, la necessità di un attraversamento e la dinamica del suo manifestarsi quale verità dello spazio urbano, dell’abitare e del vivere insieme, profonda domanda sulla comunità e sul modo d’essere del comune. Questo scatto quasi fotografico, che pare trattenere il “pas” del passante e del passaggio, cristallizza la liquidità scorrevole della flânerie, ma in questo dissimulare l’inarrestabile continuità del passare, esso denuncia ad un tempo la finzione della sua opera di blocco.
SE - 6-7/2014
DA - 2014
KW - Benjamin KW - Nancy KW - Derrida KW - flâneur
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PB - Donzelli Editore
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Uno scritto sull’inoperosa pratica del passare non potrà dunque, ad avviso di chi scrive, che dispiegarsi quale spazio di tempo d’uno scatto; questa superficie del testo bianco sulla quale scivola il flâneur sarà dunque lo spettro di incisione di un’impressione fotografica atta a ospitare, nell’istante del suo arrestarsi temporaneo, la necessità di un attraversamento e la dinamica del suo manifestarsi quale verità dello spazio urbano, dell’abitare e del vivere insieme, profonda domanda sulla comunità e sul modo d’essere del comune. Questo scatto quasi fotografico, che pare trattenere il “pas” del passante e del passaggio, cristallizza la liquidità scorrevole della flânerie, ma in questo dissimulare l’inarrestabile continuità del passare, esso denuncia ad un tempo la finzione della sua opera di blocco.
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