In un’epoca di crisi che coinvolge il sistema economico e sociale, che mette in dubbio le capacità della politica di affrontare e risolvere i problemi che le vengono posti e soprattutto di tracciare strade alternative, l’individuo si interroga sul senso del suo agire, oggetto di ricerca individuale, che conduce tuttavia necessariamente al fatto dell’appartenenza sociale. In un’epoca siffatta gli uomini possono anche decidersi per il silenzio, per la pervicace chiusura nell’individualità, negando ogni possibilità al senso e ogni realtà all’azione, ogni composizione tra individuo e comunità. La filosofia di Eric Weil è un sentiero percorso lungo il crinale di questa alternativa radicale tra senso e insensatezza dell’azione, una risalita ad una dimensione trascendentale da cui indagare i margini – possibilità e limiti – dell’agire umano, che coinvolge la morale, la politica e più in generale la capacità degli uomini di rendere sensata la propria vita. Con Weil ci chiediamo in che modo, in un mondo che conosce una progressiva ‘massificazione morale’, oltre che materiale, sia ancora possibile elaborare un pensiero critico, che individui i limiti della società e delle sue leggi, ne sveli la genesi storica e ne metta in questione l’apparente necessità. Se la nostra può essere definita ancora a tutti gli effetti ‘l’epoca delle masse’ – in cui «non è più l’individuo che spiega il corso degli eventi, è il corso degli eventi che spiega l’azione individuale per ridurla, o quasi, a una semplice reazione dinanzi a una situazione determinata dall’azione di forze essenzialmente anonime […], forze analoghe, sebbene non strettamente paragonabili, a quelle che spiegano gli eventi naturali»1 –, la filosofia trova ancora il suo luogo naturale al fondo dell’insoddisfazione dell’uomo moderno ed è a tale insoddisfazione che essa deve ancora cercare di dare una risposta. Nella sua prima opera sistematica, Logique de la philosophie (1950), Weil costruisce una logica storico-filosofica del succedersi delle filosofie attraverso l’esplicitazione dei ‘discorsi’ coerenti che organizzano, secondo una forma universale, le concrete ‘attitudini’ umane caratterizzanti una determinata epoca storica. Secondo Weil, la filosofia non è altro che la costruzione di un discorso coerente a partire da principi presenti in ogni presa di posizione dell’uomo rispetto al mondo (attitude), che però è per suo conto arbitraria e contingente. La ragione, presente solo in nuce nel concreto della vita dell’uomo, divisa e frammentata nelle “ragioni” delle particolarità, è perseguita fino in fondo solo dal discorso filosofico, ossia da quella ‘decisione’, che l’uomo può prendere, di condurre il suo discorso su di un piano universale di coerenza. Nella prospettiva di Weil, l’universale assume i tratti di una costruzione umana, mai semplicemente data al di fuori del ‘discorso’ che la esplicita, in quanto possibilità che si rintraccia sempre nella realtà contingente della storia degli uomini e mai prima o al di sopra di essa. Altrimenti detto, per Weil il vivere precede il filosofare, e la filosofia non deve dimenticare la sua origine pre-discorsiva, la sua natura specificatamente umana, come ricerca di un ‘senso’ in un mondo che non è interamente sensato, ma dominato dall’arbitrio e dalla ‘violenza’. La filosofia non è, per Weil, ragione pura, ma ‘decisione’ arbitraria, che si definisce come un’incessante ricerca del senso a partire dal fatto della realtà umana, senza poterlo mai esaurire in ogni suo discorso possibile. Nella successione delle categorie, esposta nella sua opera principale, Weil individua in quella di Assoluto, categoria precipuamente hegeliana, la massima compiutezza del discorso filosofico2. In essa il particolare rientra interamente nel senso dell’universale poiché il suo discorso mostra come l’unità sia raggiunta attraverso il superamento di ogni alterità, mediante la dialettica che conduce al Sapere assoluto, a quella forma di pensiero che scopre l’identità nell’altro da sé. Ma se, come vorrebbero alcuni interpreti, la filosofia contemporanea nel suo complesso è un tentativo di superare il pensiero hegeliano, quello di Weil può essere definito come un tentativo di muovere hegelianamente oltre Hegel, di mostrare l’insufficienza dell’Assoluto nella ricerca di un senso per la vita concreta degli uomini3. Le categorie successive all’Assoluto, l’opera e il finito, definite da Weil “categorie della rivolta”, mostrano che l’uomo non è essenzialmente sapere. Il discorso dell’Assoluto che non può essere confutato da nessun altro discorso particolare, è confutato di fatto: dal fatto della violenza umana che si rifiuta al discorso, dal fatto della non-ragione che si rifiuta a qualsiasi tentativo di presa della ragione stessa. La filosofia, dunque, deve poter muovere oltre se stessa, oltre la coerenza assoluta del discorso, per non chiudersi in una dimensione puramente formale e tautologica che dimentica la concreta vita dell’uomo, nella quale la violenza, come avviene nella Logica della filosofia, affiora senza posa al di là di qualsiasi tentativo di coerenza. Per affermarsi contro la violenza dell’insensato, la ragione filosofica, la ragione che si vuole assolutamente coerente, si realizza in una filosofia che pensi necessariamente “dopo” Hegel, che sia in grado, cioè, di compiere il coraggioso passo di sottrarre il senso al dominio del discorso e del pensiero4. Tale tentativo è approntato mediante la categoria dell’azione, attraverso cui Weil intende costruire una filosofia non del senso pensato, ma agito. Sebbene ad essa facciano seguito le categorie formali del senso e della saggezza, l’azione, categoria di chiara influenza marxiana, può essere considerata come l’ultima della Logica della filosofia, poiché al suo cospetto il discorso propriamente si estingue. Per l’Assoluto la vita dell’uomo ha un senso, ma in quanto non è la sua vita. Le categorie della rivolta (opera e finito) contrappongono alla ragione separata dalla vita la vita che rifiuta la ragione. Ora, «Cosa vuole l’azione? La soddisfazione dell’uomo in rivolta, la realizzazione di un mondo dove la rivolta non sia solo irragionevole – lo è già da quando il discorso si è fatto coerente nell’Assoluto – ma divenga impossibile, umanamente impossibile, o, che è lo stesso, dove la rivolta, che è l’essere dell’individuo, faccia parte integrante della realtà nella quale l’individuo vive o ancora che la coerenza cessi di essere l’altro dall’individuo»5.
E. Weil, Masse e individui storici, trad. it. di M. Venturi Ferriolo, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 37-38. ↩
«Dove c’è filosofia c’è discorso coerente, l’idea stessa del discorso coerente, ossia l’idea dell’assoluto, è l’idea che produce la filosofia in ogni categoria (…). In ogni attitudine, l’uomo se e quando parla, parla dell’Assoluto e del discorso coerente, che si realizza soltanto nella categoria dell’Assoluto, dove l’Assoluto assorbe l’attitudine» (E. Weil, Logica della filosofia, trad. it. a cura di L. Sichirollo, il Mulino, Bologna 1997, pp. 470-471). Weil definisce la filosofia hegeliana un “solitario riuscito” in cui il particolare rientra nella struttura dell’universale e solo in esso acquista il suo senso. ↩
Cfr. G. Kirscher, La philosophie d’Eric Weil. Systémacité et ouverture, PUF, Paris 1989. Per Kirscher, al contrario di quanti hanno pensato di rompere con la modernità e in particolar modo con Hegel, rifacendosi all’impostazione di pensiero di Nietzsche, Freud o Heidegger, Weil ha indicato una via nella filosofia seguendo la quale è possibile criticare Hegel senza rinunciare a un discorso coerente e sistematico, in quanto la sistematicità, intesa come superamento di ogni posizione del pensiero, non pregiudica, ma paradossalmente garantisce la sua apertura. Cfr. P.L. Lecis, Assoluto, pensiero e realtà, Eric Weil e la logica hegeliana, in G. Monia (a cura di), La logica di Hegel e la storia della filosofia, Edizioni AV, Cagliari 1996, pp. 231-252. ↩
Per una discussione critica della “soluzione” weiliana rimandiamo a F. Valentini, Hegel e noi: due scritti su Eric Weil, in Id., Soluzioni hegeliane, Guerini e Associati, Milano 2001, p. 243 ss. ↩
Belli, Christian."AZIONE E LAVORO nella filosofia politica di Eric Weil". PólemosV. 2-3. (2010): 90-101https://www.rivistapolemos.it/azione-e-lavoro-nella-filosofia-politica-di-eric-weil/?lang=it
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Belli, C.(2010). "AZIONE E LAVORO nella filosofia politica di Eric Weil". PólemosV. (2-3). 90-101https://www.rivistapolemos.it/azione-e-lavoro-nella-filosofia-politica-di-eric-weil/?lang=it
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Belli, Christian.2010. "AZIONE E LAVORO nella filosofia politica di Eric Weil". PólemosV (2-3). Donzelli Editore: 90-101. https://www.rivistapolemos.it/azione-e-lavoro-nella-filosofia-politica-di-eric-weil/?lang=it
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A1 - Belli, Christian
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TI - AZIONE E LAVORO nella filosofia politica di Eric Weil
JO - Plemos
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AB - In un’epoca di crisi che coinvolge il sistema economico e sociale, che mette in dubbio le capacità della politica di affrontare e risolvere i problemi che le vengono posti e soprattutto di tracciare strade alternative, l’individuo si interroga sul senso del suo agire, oggetto di ricerca individuale, che conduce tuttavia necessariamente al fatto dell’appartenenza sociale. In un’epoca siffatta gli uomini possono anche decidersi per il silenzio, per la pervicace chiusura nell’individualità, negando ogni possibilità al senso e ogni realtà all’azione, ogni composizione tra individuo e comunità. La filosofia di Eric Weil è un sentiero percorso lungo il crinale di questa alternativa radicale tra senso e insensatezza dell’azione, una risalita ad una dimensione trascendentale da cui indagare i margini – possibilità e limiti – dell’agire umano, che coinvolge la morale, la politica e più in generale la capacità degli uomini di rendere sensata la propria vita. Con Weil ci chiediamo in che modo, in un mondo che conosce una progressiva ‘massificazione morale’, oltre che materiale, sia ancora possibile elaborare un pensiero critico, che individui i limiti della società e delle sue leggi, ne sveli la genesi storica e ne metta in questione l’apparente necessità. Se la nostra può essere definita ancora a tutti gli effetti ‘l’epoca delle masse’ – in cui «non è più l’individuo che spiega il corso degli eventi, è il corso degli eventi che spiega l’azione individuale per ridurla, o quasi, a una semplice reazione dinanzi a una situazione determinata dall’azione di forze essenzialmente anonime […], forze analoghe, sebbene non strettamente paragonabili, a quelle che spiegano gli eventi naturali»[1. E. Weil, Masse e individui storici, trad. it. di M. Venturi Ferriolo, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 37-38.] –, la filosofia trova ancora il suo luogo naturale al fondo dell’insoddisfazione dell’uomo moderno ed è a tale insoddisfazione che essa deve ancora cercare di dare una risposta. Nella sua prima opera sistematica, Logique de la philosophie (1950), Weil costruisce una logica storico-filosofica del succedersi delle filosofie attraverso l’esplicitazione dei ‘discorsi’ coerenti che organizzano, secondo una forma universale, le concrete ‘attitudini’ umane caratterizzanti una determinata epoca storica. Secondo Weil, la filosofia non è altro che la costruzione di un discorso coerente a partire da principi presenti in ogni presa di posizione dell’uomo rispetto al mondo (attitude), che però è per suo conto arbitraria e contingente. La ragione, presente solo in nuce nel concreto della vita dell’uomo, divisa e frammentata nelle “ragioni” delle particolarità, è perseguita fino in fondo solo dal discorso filosofico, ossia da quella ‘decisione’, che l’uomo può prendere, di condurre il suo discorso su di un piano universale di coerenza. Nella prospettiva di Weil, l’universale assume i tratti di una costruzione umana, mai semplicemente data al di fuori del ‘discorso’ che la esplicita, in quanto possibilità che si rintraccia sempre nella realtà contingente della storia degli uomini e mai prima o al di sopra di essa. Altrimenti detto, per Weil il vivere precede il filosofare, e la filosofia non deve dimenticare la sua origine pre-discorsiva, la sua natura specificatamente umana, come ricerca di un ‘senso’ in un mondo che non è interamente sensato, ma dominato dall’arbitrio e dalla ‘violenza’. La filosofia non è, per Weil, ragione pura, ma ‘decisione’ arbitraria, che si definisce come un’incessante ricerca del senso a partire dal fatto della realtà umana, senza poterlo mai esaurire in ogni suo discorso possibile. Nella successione delle categorie, esposta nella sua opera principale, Weil individua in quella di Assoluto, categoria precipuamente hegeliana, la massima compiutezza del discorso filosofico[2. «Dove c’è filosofia c’è discorso coerente, l’idea stessa del discorso coerente, ossia l’idea dell’assoluto, è l’idea che produce la filosofia in ogni categoria (…). In ogni attitudine, l’uomo se e quando parla, parla dell’Assoluto e del discorso coerente, che si realizza soltanto nella categoria dell’Assoluto, dove l’Assoluto assorbe l’attitudine» (E. Weil, Logica della filosofia, trad. it. a cura di L. Sichirollo, il Mulino, Bologna 1997, pp. 470-471). Weil definisce la filosofia hegeliana un “solitario riuscito” in cui il particolare rientra nella struttura dell’universale e solo in esso acquista il suo senso.]. In essa il particolare rientra interamente nel senso dell’universale poiché il suo discorso mostra come l’unità sia raggiunta attraverso il superamento di ogni alterità, mediante la dialettica che conduce al Sapere assoluto, a quella forma di pensiero che scopre l’identità nell’altro da sé. Ma se, come vorrebbero alcuni interpreti, la filosofia contemporanea nel suo complesso è un tentativo di superare il pensiero hegeliano, quello di Weil può essere definito come un tentativo di muovere hegelianamente oltre Hegel, di mostrare l’insufficienza dell’Assoluto nella ricerca di un senso per la vita concreta degli uomini[3. Cfr. G. Kirscher, La philosophie d’Eric Weil. Systémacité et ouverture, PUF, Paris 1989. Per Kirscher, al contrario di quanti hanno pensato di rompere con la modernità e in particolar modo con Hegel, rifacendosi all’impostazione di pensiero di Nietzsche, Freud o Heidegger, Weil ha indicato una via nella filosofia seguendo la quale è possibile criticare Hegel senza rinunciare a un discorso coerente e sistematico, in quanto la sistematicità, intesa come superamento di ogni posizione del pensiero, non pregiudica, ma paradossalmente garantisce la sua apertura. Cfr. P.L. Lecis, Assoluto, pensiero e realtà, Eric Weil e la logica hegeliana, in G. Monia (a cura di), La logica di Hegel e la storia della filosofia, Edizioni AV, Cagliari 1996, pp. 231-252.]. Le categorie successive all’Assoluto, l’opera e il finito, definite da Weil “categorie della rivolta”, mostrano che l’uomo non è essenzialmente sapere. Il discorso dell’Assoluto che non può essere confutato da nessun altro discorso particolare, è confutato di fatto: dal fatto della violenza umana che si rifiuta al discorso, dal fatto della non-ragione che si rifiuta a qualsiasi tentativo di presa della ragione stessa. La filosofia, dunque, deve poter muovere oltre se stessa, oltre la coerenza assoluta del discorso, per non chiudersi in una dimensione puramente formale e tautologica che dimentica la concreta vita dell’uomo, nella quale la violenza, come avviene nella Logica della filosofia, affiora senza posa al di là di qualsiasi tentativo di coerenza. Per affermarsi contro la violenza dell’insensato, la ragione filosofica, la ragione che si vuole assolutamente coerente, si realizza in una filosofia che pensi necessariamente “dopo” Hegel, che sia in grado, cioè, di compiere il coraggioso passo di sottrarre il senso al dominio del discorso e del pensiero[4. Per una discussione critica della “soluzione” weiliana rimandiamo a F. Valentini, Hegel e noi: due scritti su Eric Weil, in Id., Soluzioni hegeliane, Guerini e Associati, Milano 2001, p. 243 ss.]. Tale tentativo è approntato mediante la categoria dell’azione, attraverso cui Weil intende costruire una filosofia non del senso pensato, ma agito. Sebbene ad essa facciano seguito le categorie formali del senso e della saggezza, l’azione, categoria di chiara influenza marxiana, può essere considerata come l’ultima della Logica della filosofia, poiché al suo cospetto il discorso propriamente si estingue. Per l’Assoluto la vita dell’uomo ha un senso, ma in quanto non è la sua vita. Le categorie della rivolta (opera e finito) contrappongono alla ragione separata dalla vita la vita che rifiuta la ragione. Ora, «Cosa vuole l’azione? La soddisfazione dell’uomo in rivolta, la realizzazione di un mondo dove la rivolta non sia solo irragionevole – lo è già da quando il discorso si è fatto coerente nell’Assoluto – ma divenga impossibile, umanamente impossibile, o, che è lo stesso, dove la rivolta, che è l’essere dell’individuo, faccia parte integrante della realtà nella quale l’individuo vive o ancora che la coerenza cessi di essere l’altro dall’individuo»[5. E. Weil, Logica della filosofia, cit., p. 542.].
SE - 2-3/2010
DA - 2010
KW - Eric Weil KW - Hegel KW - Marx KW - lavoro
UR - https://www.rivistapolemos.it/azione-e-lavoro-nella-filosofia-politica-di-eric-weil/?lang=it
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Con Weil ci chiediamo in che modo, in un mondo che conosce una progressiva ‘massificazione morale’, oltre che materiale, sia ancora possibile elaborare un pensiero critico, che individui i limiti della società e delle sue leggi, ne sveli la genesi storica e ne metta in questione l’apparente necessità. Se la nostra può essere definita ancora a tutti gli effetti ‘l’epoca delle masse’ – in cui «non è più l’individuo che spiega il corso degli eventi, è il corso degli eventi che spiega l’azione individuale per ridurla, o quasi, a una semplice reazione dinanzi a una situazione determinata dall’azione di forze essenzialmente anonime […], forze analoghe, sebbene non strettamente paragonabili, a quelle che spiegano gli eventi naturali»[1. E. Weil, Masse e individui storici, trad. it. di M. Venturi Ferriolo, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 37-38.] –, la filosofia trova ancora il suo luogo naturale al fondo dell’insoddisfazione dell’uomo moderno ed è a tale insoddisfazione che essa deve ancora cercare di dare una risposta. Nella sua prima opera sistematica, Logique de la philosophie (1950), Weil costruisce una logica storico-filosofica del succedersi delle filosofie attraverso l’esplicitazione dei ‘discorsi’ coerenti che organizzano, secondo una forma universale, le concrete ‘attitudini’ umane caratterizzanti una determinata epoca storica. Secondo Weil, la filosofia non è altro che la costruzione di un discorso coerente a partire da principi presenti in ogni presa di posizione dell’uomo rispetto al mondo (attitude), che però è per suo conto arbitraria e contingente. La ragione, presente solo in nuce nel concreto della vita dell’uomo, divisa e frammentata nelle “ragioni” delle particolarità, è perseguita fino in fondo solo dal discorso filosofico, ossia da quella ‘decisione’, che l’uomo può prendere, di condurre il suo discorso su di un piano universale di coerenza. Nella prospettiva di Weil, l’universale assume i tratti di una costruzione umana, mai semplicemente data al di fuori del ‘discorso’ che la esplicita, in quanto possibilità che si rintraccia sempre nella realtà contingente della storia degli uomini e mai prima o al di sopra di essa. Altrimenti detto, per Weil il vivere precede il filosofare, e la filosofia non deve dimenticare la sua origine pre-discorsiva, la sua natura specificatamente umana, come ricerca di un ‘senso’ in un mondo che non è interamente sensato, ma dominato dall’arbitrio e dalla ‘violenza’. La filosofia non è, per Weil, ragione pura, ma ‘decisione’ arbitraria, che si definisce come un’incessante ricerca del senso a partire dal fatto della realtà umana, senza poterlo mai esaurire in ogni suo discorso possibile. Nella successione delle categorie, esposta nella sua opera principale, Weil individua in quella di Assoluto, categoria precipuamente hegeliana, la massima compiutezza del discorso filosofico[2. «Dove c’è filosofia c’è discorso coerente, l’idea stessa del discorso coerente, ossia l’idea dell’assoluto, è l’idea che produce la filosofia in ogni categoria (…). In ogni attitudine, l’uomo se e quando parla, parla dell’Assoluto e del discorso coerente, che si realizza soltanto nella categoria dell’Assoluto, dove l’Assoluto assorbe l’attitudine» (E. Weil, Logica della filosofia, trad. it. a cura di L. Sichirollo, il Mulino, Bologna 1997, pp. 470-471). Weil definisce la filosofia hegeliana un “solitario riuscito” in cui il particolare rientra nella struttura dell’universale e solo in esso acquista il suo senso.]. In essa il particolare rientra interamente nel senso dell’universale poiché il suo discorso mostra come l’unità sia raggiunta attraverso il superamento di ogni alterità, mediante la dialettica che conduce al Sapere assoluto, a quella forma di pensiero che scopre l’identità nell’altro da sé. Ma se, come vorrebbero alcuni interpreti, la filosofia contemporanea nel suo complesso è un tentativo di superare il pensiero hegeliano, quello di Weil può essere definito come un tentativo di muovere hegelianamente oltre Hegel, di mostrare l’insufficienza dell’Assoluto nella ricerca di un senso per la vita concreta degli uomini[3. Cfr. G. Kirscher, La philosophie d’Eric Weil. Systémacité et ouverture, PUF, Paris 1989. Per Kirscher, al contrario di quanti hanno pensato di rompere con la modernità e in particolar modo con Hegel, rifacendosi all’impostazione di pensiero di Nietzsche, Freud o Heidegger, Weil ha indicato una via nella filosofia seguendo la quale è possibile criticare Hegel senza rinunciare a un discorso coerente e sistematico, in quanto la sistematicità, intesa come superamento di ogni posizione del pensiero, non pregiudica, ma paradossalmente garantisce la sua apertura. Cfr. P.L. Lecis, Assoluto, pensiero e realtà, Eric Weil e la logica hegeliana, in G. Monia (a cura di), La logica di Hegel e la storia della filosofia, Edizioni AV, Cagliari 1996, pp. 231-252.]. Le categorie successive all’Assoluto, l’opera e il finito, definite da Weil “categorie della rivolta”, mostrano che l’uomo non è essenzialmente sapere. Il discorso dell’Assoluto che non può essere confutato da nessun altro discorso particolare, è confutato di fatto: dal fatto della violenza umana che si rifiuta al discorso, dal fatto della non-ragione che si rifiuta a qualsiasi tentativo di presa della ragione stessa. La filosofia, dunque, deve poter muovere oltre se stessa, oltre la coerenza assoluta del discorso, per non chiudersi in una dimensione puramente formale e tautologica che dimentica la concreta vita dell’uomo, nella quale la violenza, come avviene nella Logica della filosofia, affiora senza posa al di là di qualsiasi tentativo di coerenza. Per affermarsi contro la violenza dell’insensato, la ragione filosofica, la ragione che si vuole assolutamente coerente, si realizza in una filosofia che pensi necessariamente “dopo” Hegel, che sia in grado, cioè, di compiere il coraggioso passo di sottrarre il senso al dominio del discorso e del pensiero[4. Per una discussione critica della “soluzione” weiliana rimandiamo a F. Valentini, Hegel e noi: due scritti su Eric Weil, in Id., Soluzioni hegeliane, Guerini e Associati, Milano 2001, p. 243 ss.]. Tale tentativo è approntato mediante la categoria dell’azione, attraverso cui Weil intende costruire una filosofia non del senso pensato, ma agito. Sebbene ad essa facciano seguito le categorie formali del senso e della saggezza, l’azione, categoria di chiara influenza marxiana, può essere considerata come l’ultima della Logica della filosofia, poiché al suo cospetto il discorso propriamente si estingue. Per l’Assoluto la vita dell’uomo ha un senso, ma in quanto non è la sua vita. Le categorie della rivolta (opera e finito) contrappongono alla ragione separata dalla vita la vita che rifiuta la ragione. Ora, «Cosa vuole l’azione? La soddisfazione dell’uomo in rivolta, la realizzazione di un mondo dove la rivolta non sia solo irragionevole – lo è già da quando il discorso si è fatto coerente nell’Assoluto – ma divenga impossibile, umanamente impossibile, o, che è lo stesso, dove la rivolta, che è l’essere dell’individuo, faccia parte integrante della realtà nella quale l’individuo vive o ancora che la coerenza cessi di essere l’altro dall’individuo»[5. E. Weil, Logica della filosofia, cit., p. 542.].}
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