La questione del lavoro come questione del pensiero, come orizzonte di un’azione che si voglia criticamente consapevole, come tema portante della riflessione etica e politica, può evocare una sensazione di dejà vu, tanto più quando viene affrontata, come nelle pagine di questo numero di Pólemos, a partire da una prospettiva inquadrata, in larga misura, da Hegel e da Marx; per lo meno, non sembra trattarsi di un tema alla moda nella riflessione del momento o, peggio ancora, può dare l’impressione di una ripresa velleitaria di una moda passata. Sarebbe però il caso di chiedersi se questa uscita di scena, attraverso una serie di riformulazioni, dissimulazioni e accantonamenti non ne sia piuttosto una rimozione, e se il senso di inelegante intempestività di questo riaffioramento, più che la spiacevolezza della stonatura rispetto agli accenti che oggi risuonano nel discorso prevalente, non sia semmai il disagio verso il ripresentarsi di qualcosa di decisivo, e proprio per questo tanto più trascurato. In altre parole: ripresentare il tema del lavoro, e farlo seguendo il filo conduttore di una serie di riflessioni in larga parte interrotte più di una ventina di anni fa, comporta di necessità una presa di posizione polemica, o per lo meno critica, rispetto a ciò che lo ha spostato dalla scena. Diviene allora necessario comprendere innanzitutto le ragioni e le modalità di questa uscita di scena, capire il processo di rimozione per come è avvenuto e per ciò che ha significato. Questa è, del resto, una delle questioni ricorrenti in molti dei contributi raccolti in questo volume: a volte in modo esplicito, a volte tra le righe, il problema della rimozione del lavoro, e dello scavo necessario a riportarlo alla superficie, è largamente presente, pur nelle differenti angolazioni tematiche e nella diversità di approccio teoretico. Sembra comunque possibile individuare, a partire dal confronto che ha animato il processo di elaborazione di questo numero, tre linee principali lungo cui si sarebbe articolata questa opera di rimozione, che si produrrebbero in termini di neutralizzazione, rarefazione e sostituzione. La prima forma di rimozione è la più evidentemente politica, e passa per la messa tra parentesi delle soggettività all’opera nel lavoro: una volta tolte di mezzo queste e la loro conflittualità, il tema del lavoro, dei lavoratori e delle loro istanze si risolve in quello dell’occupazione, parola neutrale che astrae il lavoro dalla concretezza delle sue condizioni e lo sposta su un piano meramente quantitativo. In questo modo, il lavoro torna a essere una variabile completamente dipendente dall’economia, la cui abbondanza o scarsità è il portato contingente di forze impersonali, che agiscono con l’apparente oggettività dei movimenti tellurici o di quelli siderali; non è forse del tutto azzardato, allora, sostenere che questa neutralizzazione sia parte integrante del discorso economico attuale e dei suoi formalismi. La seconda linea si muove a partire da una serie di constatazioni sul mutamento delle circostanze concrete in cui il lavoro si produce: se, per lo meno nella parte di mondo in cui viviamo, il lavoro che si vede è in larga parte diverso dalla fatica fisica e in alcuni casi diluito fino a confondersi con il tempo libero, e in cui il tessuto sociale del lavoro si è parcellizzato, se non atomizzato, in una congerie di figure I indipendenti, diviene oggettivamente difficile mantenere le categorie tipiche secondo cui si sono pensati e presentati i lavoratori. Il lavoro, oggi, è disgregato in una moltitudine di processi non direttamente collegati, le diverse attività sono dislocate sul piano spaziale e il campo relazionale collegato al lavoro si articola sempre meno sull’asse orizzontale dei rapporti con altri lavoratori e sempre più su quello verticale delle relazioni con la dirigenza aziendale o con l’impersonalità del mercato. Queste constatazioni di fatto, che sono senz’altro imprescindibili in ogni riflessione critica sul lavoro, vengono spesso riportate a una teoria generale dell’insostenibilità delle teorie generali, a una revoca in dubbio delle categorie e delle forme del pensiero della totalità, fino a far corrispondere alla parcellizzazione riscontrata nei soggetti una parcellizzazione propugnata nella struttura del discorso. In questo modo, il termine generale “lavoro” viene messo sotto accusa proprio per la sua generalità, fino a renderne impraticabile ogni valenza di strumento per la lettura critica del contesto sociale e, più in generale, delle forme di soggettivazione: il lavoro immateriale viene così rarefatto fino a non potersi più cogliere come dato riconoscibile, e con esso si dissolvono i soggetti e le loro forme di riconoscimento e costituzione. Infine, il terzo asse agisce attraverso una dichiarata perdita di centralità del lavoro, in favore di altre forme di definizione dei soggetti nell’epoca della tarda modernità: l’atto economico centrale non è più la produzione ma il consumo di merci, inteso come momento dalle forti valenze identitarie e culturali, quando non politiche, e il compito della teoria è allora quello di decifrare il senso e la strategia dei consumi, piuttosto che l’insieme di rapporti e istanze che innervano il lavoro. Se è facile, specie in un contesto di crisi economica, rilevare l’ingenuità con cui viene data per scontata la sovrabbondanza di merci e, ancor più, la sbrigatività con cui gli aspetti emotivi e simbolici vengono fatti prevalere rispetto a quelli materiali, il portato più significativo di questo processo di sostituzione sembra un generale slittamento semantico e categoriale, per cui si passa dall’attività del soggetto impegnato nel lavoro alla sostanziale passività del consumatore, mentre la merce viene caricata di un valore simbolico che ne trascende la sostanza di prodotto: di fatto, si tratta di una forma di feticismo che, in quanto tale, ne mostra in filigrana la funzione di strumento di rimozione. Questi tre percorsi sono accomunati dalla postura tipica della tarda modernità: abbandono della totalità come orizzonte di riferimento, riduzione della normatività del discorso filosofico rispetto alle altre istanze, rottura del nesso tra pensiero e azione, rovesciamento del rapporto filogenetico tra ordine materiale e ordine simbolico, diversificazione degli ambiti del discorso in funzione delle specificità soggettive. Il tema del lavoro, non soltanto nella prospettiva preminentemente legata a Marx e a Hegel che si trova in queste pagine, ma proprio nella sua costituzione di significato, si colloca infatti in un orizzonte costituito come totalità, visto che si caratterizza come un universale non riducibile e onnipervasivo, origina un discorso normativo tanto dal punto di vista etico quanto da quello dell’identificazione delle pertinenze e delle legalità degli altri discorsi, riferisce il pensiero all’azione tanto sul piano del campo oggettuale quanto su quello della sua finalità e, infine, definisce i soggetti a partire dalla loro collocazione funzionale, di fatto subordinando ogni punto di vista interno a quest’ambito generale. D’altra parte, quello della soggettività è il tema decisivo per ogni discorso sul lavoro: esso agisce infatti come istanza di assoggettamento, nel duplice significato II della costituzione dei soggetti e della loro iscrizione in un ordine di alienazione e sfruttamento. Il soggetto costituito nel e dal lavoro è, per definizione, un soggetto per il quale si pone il problema della propria liberazione, e dunque dell’uscita dal contesto che lo ha originato: in questo si può cogliere un’altra peculiarità essenziale del discorso critico sul lavoro, vale a dire il suo orientamento verso una trasformazione radicale delle condizioni date, che deve necessariamente affrontarle come totalità in una modalità strategicamente orientata alla prassi e organizzata a partire da una definizione completa dello stato della realtà nei suoi nessi fondativi. Questa convergenza di totalità, pragmatica, centralità del soggetto e trasformazione delle condizioni date costituisce il plesso concettuale che sembra caratterizzare in modo ineludibile il pensiero della modernità, nella sua vocazione programmatica e nei suoi tentativi di realizzazione. La posta in gioco di queste ricerche, quindi, riguarda direttamente il senso e lo scopo del fare filosofia oggi, e il fatto che la si declini attraverso la specie del lavoro non è certo accidentale. Da un lato, ciò obbedisce a un principio di realtà, per il quale le condizioni lavorative continuano a occupare il centro dell’esistenza concreta dei soggetti; dall’altro, si esercita una chiara opzione di principio sulle ragioni e le modalità della teoria critica, che evidentemente è tale soltanto se si esercita sull’esistente nella prospettiva del suo superamento.
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TY - JOUR
A1 - Cantatore, Nane
PY - 2010
TI - Presentazione: Ritorno al lavoro
JO - Plemos
SN - 8890413611/2281-9517
AB - La questione del lavoro come questione del pensiero, come orizzonte di un’azione che si voglia criticamente consapevole, come tema portante della riflessione etica e politica, può evocare una sensazione di dejà vu, tanto più quando viene affrontata, come nelle pagine di questo numero di Pólemos, a partire da una prospettiva inquadrata, in larga misura, da Hegel e da Marx; per lo meno, non sembra trattarsi di un tema alla moda nella riflessione del momento o, peggio ancora, può dare l’impressione di una ripresa velleitaria di una moda passata. Sarebbe però il caso di chiedersi se questa uscita di scena, attraverso una serie di riformulazioni, dissimulazioni e accantonamenti non ne sia piuttosto una rimozione, e se il senso di inelegante intempestività di questo riaffioramento, più che la spiacevolezza della stonatura rispetto agli accenti che oggi risuonano nel discorso prevalente, non sia semmai il disagio verso il ripresentarsi di qualcosa di decisivo, e proprio per questo tanto più trascurato. In altre parole: ripresentare il tema del lavoro, e farlo seguendo il filo conduttore di una serie di riflessioni in larga parte interrotte più di una ventina di anni fa, comporta di necessità una presa di posizione polemica, o per lo meno critica, rispetto a ciò che lo ha spostato dalla scena. Diviene allora necessario comprendere innanzitutto le ragioni e le modalità di questa uscita di scena, capire il processo di rimozione per come è avvenuto e per ciò che ha significato. Questa è, del resto, una delle questioni ricorrenti in molti dei contributi raccolti in questo volume: a volte in modo esplicito, a volte tra le righe, il problema della rimozione del lavoro, e dello scavo necessario a riportarlo alla superficie, è largamente presente, pur nelle differenti angolazioni tematiche e nella diversità di approccio teoretico. Sembra comunque possibile individuare, a partire dal confronto che ha animato il processo di elaborazione di questo numero, tre linee principali lungo cui si sarebbe articolata questa opera di rimozione, che si produrrebbero in termini di neutralizzazione, rarefazione e sostituzione. La prima forma di rimozione è la più evidentemente politica, e passa per la messa tra parentesi delle soggettività all’opera nel lavoro: una volta tolte di mezzo queste e la loro conflittualità, il tema del lavoro, dei lavoratori e delle loro istanze si risolve in quello dell’occupazione, parola neutrale che astrae il lavoro dalla concretezza delle sue condizioni e lo sposta su un piano meramente quantitativo. In questo modo, il lavoro torna a essere una variabile completamente dipendente dall’economia, la cui abbondanza o scarsità è il portato contingente di forze impersonali, che agiscono con l’apparente oggettività dei movimenti tellurici o di quelli siderali; non è forse del tutto azzardato, allora, sostenere che questa neutralizzazione sia parte integrante del discorso economico attuale e dei suoi formalismi. La seconda linea si muove a partire da una serie di constatazioni sul mutamento delle circostanze concrete in cui il lavoro si produce: se, per lo meno nella parte di mondo in cui viviamo, il lavoro che si vede è in larga parte diverso dalla fatica fisica e in alcuni casi diluito fino a confondersi con il tempo libero, e in cui il tessuto sociale del lavoro si è parcellizzato, se non atomizzato, in una congerie di figure I indipendenti, diviene oggettivamente difficile mantenere le categorie tipiche secondo cui si sono pensati e presentati i lavoratori. Il lavoro, oggi, è disgregato in una moltitudine di processi non direttamente collegati, le diverse attività sono dislocate sul piano spaziale e il campo relazionale collegato al lavoro si articola sempre meno sull’asse orizzontale dei rapporti con altri lavoratori e sempre più su quello verticale delle relazioni con la dirigenza aziendale o con l’impersonalità del mercato. Queste constatazioni di fatto, che sono senz’altro imprescindibili in ogni riflessione critica sul lavoro, vengono spesso riportate a una teoria generale dell’insostenibilità delle teorie generali, a una revoca in dubbio delle categorie e delle forme del pensiero della totalità, fino a far corrispondere alla parcellizzazione riscontrata nei soggetti una parcellizzazione propugnata nella struttura del discorso. In questo modo, il termine generale “lavoro” viene messo sotto accusa proprio per la sua generalità, fino a renderne impraticabile ogni valenza di strumento per la lettura critica del contesto sociale e, più in generale, delle forme di soggettivazione: il lavoro immateriale viene così rarefatto fino a non potersi più cogliere come dato riconoscibile, e con esso si dissolvono i soggetti e le loro forme di riconoscimento e costituzione. Infine, il terzo asse agisce attraverso una dichiarata perdita di centralità del lavoro, in favore di altre forme di definizione dei soggetti nell’epoca della tarda modernità: l’atto economico centrale non è più la produzione ma il consumo di merci, inteso come momento dalle forti valenze identitarie e culturali, quando non politiche, e il compito della teoria è allora quello di decifrare il senso e la strategia dei consumi, piuttosto che l’insieme di rapporti e istanze che innervano il lavoro. Se è facile, specie in un contesto di crisi economica, rilevare l’ingenuità con cui viene data per scontata la sovrabbondanza di merci e, ancor più, la sbrigatività con cui gli aspetti emotivi e simbolici vengono fatti prevalere rispetto a quelli materiali, il portato più significativo di questo processo di sostituzione sembra un generale slittamento semantico e categoriale, per cui si passa dall’attività del soggetto impegnato nel lavoro alla sostanziale passività del consumatore, mentre la merce viene caricata di un valore simbolico che ne trascende la sostanza di prodotto: di fatto, si tratta di una forma di feticismo che, in quanto tale, ne mostra in filigrana la funzione di strumento di rimozione. Questi tre percorsi sono accomunati dalla postura tipica della tarda modernità: abbandono della totalità come orizzonte di riferimento, riduzione della normatività del discorso filosofico rispetto alle altre istanze, rottura del nesso tra pensiero e azione, rovesciamento del rapporto filogenetico tra ordine materiale e ordine simbolico, diversificazione degli ambiti del discorso in funzione delle specificità soggettive. Il tema del lavoro, non soltanto nella prospettiva preminentemente legata a Marx e a Hegel che si trova in queste pagine, ma proprio nella sua costituzione di significato, si colloca infatti in un orizzonte costituito come totalità, visto che si caratterizza come un universale non riducibile e onnipervasivo, origina un discorso normativo tanto dal punto di vista etico quanto da quello dell’identificazione delle pertinenze e delle legalità degli altri discorsi, riferisce il pensiero all’azione tanto sul piano del campo oggettuale quanto su quello della sua finalità e, infine, definisce i soggetti a partire dalla loro collocazione funzionale, di fatto subordinando ogni punto di vista interno a quest’ambito generale. D’altra parte, quello della soggettività è il tema decisivo per ogni discorso sul lavoro: esso agisce infatti come istanza di assoggettamento, nel duplice significato II della costituzione dei soggetti e della loro iscrizione in un ordine di alienazione e sfruttamento. Il soggetto costituito nel e dal lavoro è, per definizione, un soggetto per il quale si pone il problema della propria liberazione, e dunque dell’uscita dal contesto che lo ha originato: in questo si può cogliere un’altra peculiarità essenziale del discorso critico sul lavoro, vale a dire il suo orientamento verso una trasformazione radicale delle condizioni date, che deve necessariamente affrontarle come totalità in una modalità strategicamente orientata alla prassi e organizzata a partire da una definizione completa dello stato della realtà nei suoi nessi fondativi. Questa convergenza di totalità, pragmatica, centralità del soggetto e trasformazione delle condizioni date costituisce il plesso concettuale che sembra caratterizzare in modo ineludibile il pensiero della modernità, nella sua vocazione programmatica e nei suoi tentativi di realizzazione. La posta in gioco di queste ricerche, quindi, riguarda direttamente il senso e lo scopo del fare filosofia oggi, e il fatto che la si declini attraverso la specie del lavoro non è certo accidentale. Da un lato, ciò obbedisce a un principio di realtà, per il quale le condizioni lavorative continuano a occupare il centro dell’esistenza concreta dei soggetti; dall’altro, si esercita una chiara opzione di principio sulle ragioni e le modalità della teoria critica, che evidentemente è tale soltanto se si esercita sull’esistente nella prospettiva del suo superamento.
SE - 2-3/2010
DA - 2010
KW - Hegel KW - Marx KW - lavoro
UR - https://www.rivistapolemos.it/presentazione-ritorno-al-lavoro/?lang=it
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PB - Donzelli Editore
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Sarebbe però il caso di chiedersi se questa uscita di scena, attraverso una serie di riformulazioni, dissimulazioni e accantonamenti non ne sia piuttosto una rimozione, e se il senso di inelegante intempestività di questo riaffioramento, più che la spiacevolezza della stonatura rispetto agli accenti che oggi risuonano nel discorso prevalente, non sia semmai il disagio verso il ripresentarsi di qualcosa di decisivo, e proprio per questo tanto più trascurato. In altre parole: ripresentare il tema del lavoro, e farlo seguendo il filo conduttore di una serie di riflessioni in larga parte interrotte più di una ventina di anni fa, comporta di necessità una presa di posizione polemica, o per lo meno critica, rispetto a ciò che lo ha spostato dalla scena. Diviene allora necessario comprendere innanzitutto le ragioni e le modalità di questa uscita di scena, capire il processo di rimozione per come è avvenuto e per ciò che ha significato. Questa è, del resto, una delle questioni ricorrenti in molti dei contributi raccolti in questo volume: a volte in modo esplicito, a volte tra le righe, il problema della rimozione del lavoro, e dello scavo necessario a riportarlo alla superficie, è largamente presente, pur nelle differenti angolazioni tematiche e nella diversità di approccio teoretico. Sembra comunque possibile individuare, a partire dal confronto che ha animato il processo di elaborazione di questo numero, tre linee principali lungo cui si sarebbe articolata questa opera di rimozione, che si produrrebbero in termini di neutralizzazione, rarefazione e sostituzione. La prima forma di rimozione è la più evidentemente politica, e passa per la messa tra parentesi delle soggettività all’opera nel lavoro: una volta tolte di mezzo queste e la loro conflittualità, il tema del lavoro, dei lavoratori e delle loro istanze si risolve in quello dell’occupazione, parola neutrale che astrae il lavoro dalla concretezza delle sue condizioni e lo sposta su un piano meramente quantitativo. In questo modo, il lavoro torna a essere una variabile completamente dipendente dall’economia, la cui abbondanza o scarsità è il portato contingente di forze impersonali, che agiscono con l’apparente oggettività dei movimenti tellurici o di quelli siderali; non è forse del tutto azzardato, allora, sostenere che questa neutralizzazione sia parte integrante del discorso economico attuale e dei suoi formalismi. La seconda linea si muove a partire da una serie di constatazioni sul mutamento delle circostanze concrete in cui il lavoro si produce: se, per lo meno nella parte di mondo in cui viviamo, il lavoro che si vede è in larga parte diverso dalla fatica fisica e in alcuni casi diluito fino a confondersi con il tempo libero, e in cui il tessuto sociale del lavoro si è parcellizzato, se non atomizzato, in una congerie di figure I indipendenti, diviene oggettivamente difficile mantenere le categorie tipiche secondo cui si sono pensati e presentati i lavoratori. Il lavoro, oggi, è disgregato in una moltitudine di processi non direttamente collegati, le diverse attività sono dislocate sul piano spaziale e il campo relazionale collegato al lavoro si articola sempre meno sull’asse orizzontale dei rapporti con altri lavoratori e sempre più su quello verticale delle relazioni con la dirigenza aziendale o con l’impersonalità del mercato. Queste constatazioni di fatto, che sono senz’altro imprescindibili in ogni riflessione critica sul lavoro, vengono spesso riportate a una teoria generale dell’insostenibilità delle teorie generali, a una revoca in dubbio delle categorie e delle forme del pensiero della totalità, fino a far corrispondere alla parcellizzazione riscontrata nei soggetti una parcellizzazione propugnata nella struttura del discorso. In questo modo, il termine generale “lavoro” viene messo sotto accusa proprio per la sua generalità, fino a renderne impraticabile ogni valenza di strumento per la lettura critica del contesto sociale e, più in generale, delle forme di soggettivazione: il lavoro immateriale viene così rarefatto fino a non potersi più cogliere come dato riconoscibile, e con esso si dissolvono i soggetti e le loro forme di riconoscimento e costituzione. Infine, il terzo asse agisce attraverso una dichiarata perdita di centralità del lavoro, in favore di altre forme di definizione dei soggetti nell’epoca della tarda modernità: l’atto economico centrale non è più la produzione ma il consumo di merci, inteso come momento dalle forti valenze identitarie e culturali, quando non politiche, e il compito della teoria è allora quello di decifrare il senso e la strategia dei consumi, piuttosto che l’insieme di rapporti e istanze che innervano il lavoro. Se è facile, specie in un contesto di crisi economica, rilevare l’ingenuità con cui viene data per scontata la sovrabbondanza di merci e, ancor più, la sbrigatività con cui gli aspetti emotivi e simbolici vengono fatti prevalere rispetto a quelli materiali, il portato più significativo di questo processo di sostituzione sembra un generale slittamento semantico e categoriale, per cui si passa dall’attività del soggetto impegnato nel lavoro alla sostanziale passività del consumatore, mentre la merce viene caricata di un valore simbolico che ne trascende la sostanza di prodotto: di fatto, si tratta di una forma di feticismo che, in quanto tale, ne mostra in filigrana la funzione di strumento di rimozione. Questi tre percorsi sono accomunati dalla postura tipica della tarda modernità: abbandono della totalità come orizzonte di riferimento, riduzione della normatività del discorso filosofico rispetto alle altre istanze, rottura del nesso tra pensiero e azione, rovesciamento del rapporto filogenetico tra ordine materiale e ordine simbolico, diversificazione degli ambiti del discorso in funzione delle specificità soggettive. Il tema del lavoro, non soltanto nella prospettiva preminentemente legata a Marx e a Hegel che si trova in queste pagine, ma proprio nella sua costituzione di significato, si colloca infatti in un orizzonte costituito come totalità, visto che si caratterizza come un universale non riducibile e onnipervasivo, origina un discorso normativo tanto dal punto di vista etico quanto da quello dell’identificazione delle pertinenze e delle legalità degli altri discorsi, riferisce il pensiero all’azione tanto sul piano del campo oggettuale quanto su quello della sua finalità e, infine, definisce i soggetti a partire dalla loro collocazione funzionale, di fatto subordinando ogni punto di vista interno a quest’ambito generale. D’altra parte, quello della soggettività è il tema decisivo per ogni discorso sul lavoro: esso agisce infatti come istanza di assoggettamento, nel duplice significato II della costituzione dei soggetti e della loro iscrizione in un ordine di alienazione e sfruttamento. Il soggetto costituito nel e dal lavoro è, per definizione, un soggetto per il quale si pone il problema della propria liberazione, e dunque dell’uscita dal contesto che lo ha originato: in questo si può cogliere un’altra peculiarità essenziale del discorso critico sul lavoro, vale a dire il suo orientamento verso una trasformazione radicale delle condizioni date, che deve necessariamente affrontarle come totalità in una modalità strategicamente orientata alla prassi e organizzata a partire da una definizione completa dello stato della realtà nei suoi nessi fondativi. Questa convergenza di totalità, pragmatica, centralità del soggetto e trasformazione delle condizioni date costituisce il plesso concettuale che sembra caratterizzare in modo ineludibile il pensiero della modernità, nella sua vocazione programmatica e nei suoi tentativi di realizzazione. La posta in gioco di queste ricerche, quindi, riguarda direttamente il senso e lo scopo del fare filosofia oggi, e il fatto che la si declini attraverso la specie del lavoro non è certo accidentale. Da un lato, ciò obbedisce a un principio di realtà, per il quale le condizioni lavorative continuano a occupare il centro dell’esistenza concreta dei soggetti; dall’altro, si esercita una chiara opzione di principio sulle ragioni e le modalità della teoria critica, che evidentemente è tale soltanto se si esercita sull’esistente nella prospettiva del suo superamento.}
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