Leggere, studiare, interpretare, usare Marx, al giorno d’oggi, non si sa bene cosa sia. Marx è un classico, e come tale dimora nei presupposti di ogni disciplina o teoria sociale degne di questo nome. Marx è uno sconfitto, e il suo cadavere non cessa di essere trascinato sotto le mura della città, a monito e istruzione delle nuove generazioni, che tutto possono inseguire, i più numinosi eventi messianici o i più accattivanti altri mondi possibili, salvo un’alternativa rischiosamente definita allo stato di cose presenti.
Marx si fa uomo in un ambiente saturo di aspirazioni universalistiche. Il suo orizzonte è il genere umano, la famosa Gattung, e il suo progetto è l’affermazione sensata delle ragioni della nostra specie nelle ragioni della natura. Il veicolo obbligato di questa operazione, effettivamente gigantesca, è il proletariato. La condizione sperequata di chi è adibito alla produzione e alla manutenzione delle cose rappresenta infatti un formidabile stimolo al cambiamento sociale. Ma l’ex studente di Hegel non pensa ad alcuna giustificazione morale della trasformazione ritenuta plausibile. Ricchezza e povertà costituiscono elementi indissolubili di un unico meccanismo, che, a partire dalla rivoluzione industriale, ha smisuratamente accresciuto l’incidenza della nostra civiltà sulla natura, e la sua stessa capacità di allargare la sfera delle libertà individuali e collettive. D’altra parte, nella storia del capitalismo e della società borghese c’è un prezzo di sofferenza umana costante a cui pare logico collegare altri sintomi non occasionali, quali le crisi economiche, lo spreco di risorse, l’impossibilità di organizzare la produzione materiale e immateriale sulla base delle effettive esigenze delle popolazioni. L’abbondanza di talenti individuali e cooperativi accumulata dalla comunità negli ultimi secoli, la quantità di cognizioni e manufatti che le donne e gli uomini si dimostrano capaci di forgiare e immagina- re, stridono dunque con il modo ristretto in cui questa immensa ricchezza è impiegata. Come il singolo operaio, inchiodato a operazioni segmentate e ripetitive, ha perso il bandolo della matassa del proprio lavoro, così la Gattung nel suo complesso appare in balia di un misto di forza e debolezza, che, in definitiva, sta a indicare una potente ma incompleta socializzazione delle sue energie fisiche e mentali.
Questa, in sostanza, è l’idea chiave di Marx. Possedere quel che è nostro. Controllare ciò che siamo. È notevole che un tale pensiero egli inizi a formularlo molto presto, prima del 1848, e passi almeno altri vent’anni a limarlo e approfondirlo in senso materialistico. La dinamica del capitalismo e quella della lotta di classe rappresentano gli ancoraggi permanenti di questo lungo viaggio, intrapreso al fine di epurare la propria teoria di ogni risvolto emotivo, utopistico, tradizionalmente filosofico. Comunismo, nel 1844, è parola rozza e maledetta, che Marx pronuncia con piena cognizione di causa. Il resto della sua vita lo impiegherà a imparare dalla propria scoperta, in uno strapazzo intellettuale di rara eleganza, da cui risulterà Das Kapital, massimo di astrazione convertibile in un massimo di concretezza. Così, la critica dell’ideologia, e l’ambizione di seppellire la metafisica, producono un sapere che soddisfa in ogni caso gli appetiti più tenaci della filosofia. Pensiero ed essere si richiamano a vicenda senza alcuna semplificazione, ma con il dichiarato presupposto che «l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini».
Teoria e pratica vengono tendenzialmente a coincidere, affidando alla politica il compito di affrancare la storia dal peso opaco di una necessità che delinea il campo delle opzioni possibili e di cui, pure, occorre decifrare i geroglifici.
Ora, è assolutamente impossibile separare il pensatore Marx dall’uomo politico impegnato nella causa del proletariato. La drastica mozione d’ordine epistemologica che il Capitale rappresenta a fronte dell’immane fenomenologia del mercato mondiale, attinge infatti all’ostinata volontà di ricondurre le relazioni fra cose a relazioni fra gli uomini. La dipendenza reciproca degli individui, che è la fonte di tutti gli universali concepiti o istituiti, può essere dunque organizzata in modo consapevole. Ma a patto di ammettere che, nel disordine lussureggiante della società borghese, questi stessi individui hanno interessi contrastanti: interessi tendenzialmente confliggenti e suscettibili di essere organizzati secondo una strategia di vasto respiro storico-politico.
Tale strategia oggi manca. Nessuno può partorirla per semplice germinazione intellettuale, e questo è anche il motivo della particolare situazione in cui versano gli studi marxiani. Una parte di essi, forse la più interessante e rigorosa, è confinata in ridotti di accademia, ammalata di specializzazione e costretta nel circuito demoralizzante degli addetti ai lavori. Un’altra parte gode invece di maggiore notorietà, ma si presenta talmente sfigurata da discorsi morali o messianici, da risultare niente più di un normale ibrido culturale, adatto al mercato contemporaneo delle retoriche post-riformistiche o rizo-pulsionali.
Gli intellettuali marxisti italiani, oltretutto, soffrono di un problema caratteristico. Anche in virtù di una lunga tradizione acutamente individuata da Gramsci, hanno sempre accettato di buon grado il ruolo del chierico (responsabilizzato e vezzeggiato) nel partito di Togliatti e Berlinguer. Ma la svolta di fine secolo non ha salvato né chiesa né egemonia, e di lì ha preso avvio un fuggi fuggi generale, il cui risvolto anche comico non può diminuire gli effetti devastanti prodotti in un paese che ancora vent’anni fa era guardato con invidia dagli studiosi marxisti di tutto il mondo.
Ciononostante, uno specifico contesto teorico marxiano esiste e resiste. L’idea che del capitalismo e delle sue tendenze possa darsi un’immagine scientifica, l’idea che la critica dell’economia politica alimenti saperi orientati a una trasformazione sociale di tipo radicale, costituiscono tale dimensione e la rendono legittima a dispetto di ogni retorica della fine della storia. Molti uomini e donne continuano a lavorare su questo terreno accidentato e, sia pure con evidenti limiti di confronto reciproco e di incidenza politica, gli studi proseguono. Si tratta spesso di nuove e sofisticate interpretazioni delle teorie elaborate ed esposte nel Capitale. Ma, dal sud del mondo, autorevoli filosofi ed economisti ci invitano a non dimenticare l’autore del Manifesto: il pensatore e l’uomo di partito che, con sintesi assolutamente originale, ha riscattato il realismo politico, ponendolo al servizio di prospettive storiche aperte.
Ebbene, Pólemos ha voluto documentare alcuni di questi filoni di ricerca, nella coscienza di non poter edulcorare l’ordine sparso in cui si presenta il lascito marxiano. Fortunatamente, è difficile parlare di Marx facendo pura filologia o mera astrazione, e ciò esclude almeno quell’effetto da museo delle cere, che anche la migliore storiografia filosofica non riesce spesso a evitare. Si è creduto inoltre opportuno inserire nella rivista una sezione dedicata a recensioni di opere italiane, uscite negli ultimi dieci anni e dedicate, più o meno esplicitamente, a interpretazioni generali dell’opera marxiana. Si vedrà che, alla fine, il problema è sempre quello: non restare chiusi nel labirinto dei rapporti fra cose, far emergere la relazione degli individui come il segreto dello specchio deformato e la base della sua possibile rottura.
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TY - JOUR
A1 - Pólemos, Redazione
PY - 2008
TI - Presentazione – Marx, o dell’ordine sparso. Nómos capitalistico e critica dell’economia politica
JO - Plemos
SN - 889013013X/2281-9517
AB -
Leggere, studiare, interpretare, usare Marx, al giorno d’oggi, non si sa bene cosa sia. Marx è un classico, e come tale dimora nei presupposti di ogni disciplina o teoria sociale degne di questo nome. Marx è uno sconfitto, e il suo cadavere non cessa di essere trascinato sotto le mura della città, a monito e istruzione delle nuove generazioni, che tutto possono inseguire, i più numinosi eventi messianici o i più accattivanti altri mondi possibili, salvo un’alternativa rischiosamente definita allo stato di cose presenti.
Marx si fa uomo in un ambiente saturo di aspirazioni universalistiche. Il suo orizzonte è il genere umano, la famosa Gattung, e il suo progetto è l’affermazione sensata delle ragioni della nostra specie nelle ragioni della natura. Il veicolo obbligato di questa operazione, effettivamente gigantesca, è il proletariato. La condizione sperequata di chi è adibito alla produzione e alla manutenzione delle cose rappresenta infatti un formidabile stimolo al cambiamento sociale. Ma l’ex studente di Hegel non pensa ad alcuna giustificazione morale della trasformazione ritenuta plausibile. Ricchezza e povertà costituiscono elementi indissolubili di un unico meccanismo, che, a partire dalla rivoluzione industriale, ha smisuratamente accresciuto l’incidenza della nostra civiltà sulla natura, e la sua stessa capacità di allargare la sfera delle libertà individuali e collettive. D’altra parte, nella storia del capitalismo e della società borghese c’è un prezzo di sofferenza umana costante a cui pare logico collegare altri sintomi non occasionali, quali le crisi economiche, lo spreco di risorse, l’impossibilità di organizzare la produzione materiale e immateriale sulla base delle effettive esigenze delle popolazioni. L’abbondanza di talenti individuali e cooperativi accumulata dalla comunità negli ultimi secoli, la quantità di cognizioni e manufatti che le donne e gli uomini si dimostrano capaci di forgiare e immagina- re, stridono dunque con il modo ristretto in cui questa immensa ricchezza è impiegata. Come il singolo operaio, inchiodato a operazioni segmentate e ripetitive, ha perso il bandolo della matassa del proprio lavoro, così la Gattung nel suo complesso appare in balia di un misto di forza e debolezza, che, in definitiva, sta a indicare una potente ma incompleta socializzazione delle sue energie fisiche e mentali.
Questa, in sostanza, è l’idea chiave di Marx. Possedere quel che è nostro. Controllare ciò che siamo. È notevole che un tale pensiero egli inizi a formularlo molto presto, prima del 1848, e passi almeno altri vent’anni a limarlo e approfondirlo in senso materialistico. La dinamica del capitalismo e quella della lotta di classe rappresentano gli ancoraggi permanenti di questo lungo viaggio, intrapreso al fine di epurare la propria teoria di ogni risvolto emotivo, utopistico, tradizionalmente filosofico. Comunismo, nel 1844, è parola rozza e maledetta, che Marx pronuncia con piena cognizione di causa. Il resto della sua vita lo impiegherà a imparare dalla propria scoperta, in uno strapazzo intellettuale di rara eleganza, da cui risulterà Das Kapital, massimo di astrazione convertibile in un massimo di concretezza. Così, la critica dell’ideologia, e l’ambizione di seppellire la metafisica, producono un sapere che soddisfa in ogni caso gli appetiti più tenaci della filosofia. Pensiero ed essere si richiamano a vicenda senza alcuna semplificazione, ma con il dichiarato presupposto che «l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini».
Teoria e pratica vengono tendenzialmente a coincidere, affidando alla politica il compito di affrancare la storia dal peso opaco di una necessità che delinea il campo delle opzioni possibili e di cui, pure, occorre decifrare i geroglifici.
Ora, è assolutamente impossibile separare il pensatore Marx dall’uomo politico impegnato nella causa del proletariato. La drastica mozione d’ordine epistemologica che il Capitale rappresenta a fronte dell’immane fenomenologia del mercato mondiale, attinge infatti all’ostinata volontà di ricondurre le relazioni fra cose a relazioni fra gli uomini. La dipendenza reciproca degli individui, che è la fonte di tutti gli universali concepiti o istituiti, può essere dunque organizzata in modo consapevole. Ma a patto di ammettere che, nel disordine lussureggiante della società borghese, questi stessi individui hanno interessi contrastanti: interessi tendenzialmente confliggenti e suscettibili di essere organizzati secondo una strategia di vasto respiro storico-politico.
Tale strategia oggi manca. Nessuno può partorirla per semplice germinazione intellettuale, e questo è anche il motivo della particolare situazione in cui versano gli studi marxiani. Una parte di essi, forse la più interessante e rigorosa, è confinata in ridotti di accademia, ammalata di specializzazione e costretta nel circuito demoralizzante degli addetti ai lavori. Un’altra parte gode invece di maggiore notorietà, ma si presenta talmente sfigurata da discorsi morali o messianici, da risultare niente più di un normale ibrido culturale, adatto al mercato contemporaneo delle retoriche post-riformistiche o rizo-pulsionali.
Gli intellettuali marxisti italiani, oltretutto, soffrono di un problema caratteristico. Anche in virtù di una lunga tradizione acutamente individuata da Gramsci, hanno sempre accettato di buon grado il ruolo del chierico (responsabilizzato e vezzeggiato) nel partito di Togliatti e Berlinguer. Ma la svolta di fine secolo non ha salvato né chiesa né egemonia, e di lì ha preso avvio un fuggi fuggi generale, il cui risvolto anche comico non può diminuire gli effetti devastanti prodotti in un paese che ancora vent’anni fa era guardato con invidia dagli studiosi marxisti di tutto il mondo.
Ciononostante, uno specifico contesto teorico marxiano esiste e resiste. L’idea che del capitalismo e delle sue tendenze possa darsi un’immagine scientifica, l’idea che la critica dell’economia politica alimenti saperi orientati a una trasformazione sociale di tipo radicale, costituiscono tale dimensione e la rendono legittima a dispetto di ogni retorica della fine della storia. Molti uomini e donne continuano a lavorare su questo terreno accidentato e, sia pure con evidenti limiti di confronto reciproco e di incidenza politica, gli studi proseguono. Si tratta spesso di nuove e sofisticate interpretazioni delle teorie elaborate ed esposte nel Capitale. Ma, dal sud del mondo, autorevoli filosofi ed economisti ci invitano a non dimenticare l’autore del Manifesto: il pensatore e l’uomo di partito che, con sintesi assolutamente originale, ha riscattato il realismo politico, ponendolo al servizio di prospettive storiche aperte.
Ebbene, Pólemos ha voluto documentare alcuni di questi filoni di ricerca, nella coscienza di non poter edulcorare l’ordine sparso in cui si presenta il lascito marxiano. Fortunatamente, è difficile parlare di Marx facendo pura filologia o mera astrazione, e ciò esclude almeno quell’effetto da museo delle cere, che anche la migliore storiografia filosofica non riesce spesso a evitare. Si è creduto inoltre opportuno inserire nella rivista una sezione dedicata a recensioni di opere italiane, uscite negli ultimi dieci anni e dedicate, più o meno esplicitamente, a interpretazioni generali dell’opera marxiana. Si vedrà che, alla fine, il problema è sempre quello: non restare chiusi nel labirinto dei rapporti fra cose, far emergere la relazione degli individui come il segreto dello specchio deformato e la base della sua possibile rottura.
SE - 1/2008
DA - 2008
KW - Capitale KW - Comunismo KW - Hegel KW - Marx
UR - https://www.rivistapolemos.it/presentazione-marx-o-dellordine-sparso/?lang=it
DO -
PB - Donzelli Editore
LA - it
SP - IV
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author = {Redazione Pólemos},
title = {Presentazione – Marx, o dell’ordine sparso. Nómos capitalistico e critica dell’economia politica},
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Leggere, studiare, interpretare, usare Marx, al giorno d’oggi, non si sa bene cosa sia. Marx è un classico, e come tale dimora nei presupposti di ogni disciplina o teoria sociale degne di questo nome. Marx è uno sconfitto, e il suo cadavere non cessa di essere trascinato sotto le mura della città, a monito e istruzione delle nuove generazioni, che tutto possono inseguire, i più numinosi eventi messianici o i più accattivanti altri mondi possibili, salvo un’alternativa rischiosamente definita allo stato di cose presenti.
Marx si fa uomo in un ambiente saturo di aspirazioni universalistiche. Il suo orizzonte è il genere umano, la famosa Gattung, e il suo progetto è l’affermazione sensata delle ragioni della nostra specie nelle ragioni della natura. Il veicolo obbligato di questa operazione, effettivamente gigantesca, è il proletariato. La condizione sperequata di chi è adibito alla produzione e alla manutenzione delle cose rappresenta infatti un formidabile stimolo al cambiamento sociale. Ma l’ex studente di Hegel non pensa ad alcuna giustificazione morale della trasformazione ritenuta plausibile. Ricchezza e povertà costituiscono elementi indissolubili di un unico meccanismo, che, a partire dalla rivoluzione industriale, ha smisuratamente accresciuto l’incidenza della nostra civiltà sulla natura, e la sua stessa capacità di allargare la sfera delle libertà individuali e collettive. D’altra parte, nella storia del capitalismo e della società borghese c’è un prezzo di sofferenza umana costante a cui pare logico collegare altri sintomi non occasionali, quali le crisi economiche, lo spreco di risorse, l’impossibilità di organizzare la produzione materiale e immateriale sulla base delle effettive esigenze delle popolazioni. L’abbondanza di talenti individuali e cooperativi accumulata dalla comunità negli ultimi secoli, la quantità di cognizioni e manufatti che le donne e gli uomini si dimostrano capaci di forgiare e immagina- re, stridono dunque con il modo ristretto in cui questa immensa ricchezza è impiegata. Come il singolo operaio, inchiodato a operazioni segmentate e ripetitive, ha perso il bandolo della matassa del proprio lavoro, così la Gattung nel suo complesso appare in balia di un misto di forza e debolezza, che, in definitiva, sta a indicare una potente ma incompleta socializzazione delle sue energie fisiche e mentali.
Questa, in sostanza, è l’idea chiave di Marx. Possedere quel che è nostro. Controllare ciò che siamo. È notevole che un tale pensiero egli inizi a formularlo molto presto, prima del 1848, e passi almeno altri vent’anni a limarlo e approfondirlo in senso materialistico. La dinamica del capitalismo e quella della lotta di classe rappresentano gli ancoraggi permanenti di questo lungo viaggio, intrapreso al fine di epurare la propria teoria di ogni risvolto emotivo, utopistico, tradizionalmente filosofico. Comunismo, nel 1844, è parola rozza e maledetta, che Marx pronuncia con piena cognizione di causa. Il resto della sua vita lo impiegherà a imparare dalla propria scoperta, in uno strapazzo intellettuale di rara eleganza, da cui risulterà Das Kapital, massimo di astrazione convertibile in un massimo di concretezza. Così, la critica dell’ideologia, e l’ambizione di seppellire la metafisica, producono un sapere che soddisfa in ogni caso gli appetiti più tenaci della filosofia. Pensiero ed essere si richiamano a vicenda senza alcuna semplificazione, ma con il dichiarato presupposto che «l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini».
Teoria e pratica vengono tendenzialmente a coincidere, affidando alla politica il compito di affrancare la storia dal peso opaco di una necessità che delinea il campo delle opzioni possibili e di cui, pure, occorre decifrare i geroglifici.
Ora, è assolutamente impossibile separare il pensatore Marx dall’uomo politico impegnato nella causa del proletariato. La drastica mozione d’ordine epistemologica che il Capitale rappresenta a fronte dell’immane fenomenologia del mercato mondiale, attinge infatti all’ostinata volontà di ricondurre le relazioni fra cose a relazioni fra gli uomini. La dipendenza reciproca degli individui, che è la fonte di tutti gli universali concepiti o istituiti, può essere dunque organizzata in modo consapevole. Ma a patto di ammettere che, nel disordine lussureggiante della società borghese, questi stessi individui hanno interessi contrastanti: interessi tendenzialmente confliggenti e suscettibili di essere organizzati secondo una strategia di vasto respiro storico-politico.
Tale strategia oggi manca. Nessuno può partorirla per semplice germinazione intellettuale, e questo è anche il motivo della particolare situazione in cui versano gli studi marxiani. Una parte di essi, forse la più interessante e rigorosa, è confinata in ridotti di accademia, ammalata di specializzazione e costretta nel circuito demoralizzante degli addetti ai lavori. Un’altra parte gode invece di maggiore notorietà, ma si presenta talmente sfigurata da discorsi morali o messianici, da risultare niente più di un normale ibrido culturale, adatto al mercato contemporaneo delle retoriche post-riformistiche o rizo-pulsionali.
Gli intellettuali marxisti italiani, oltretutto, soffrono di un problema caratteristico. Anche in virtù di una lunga tradizione acutamente individuata da Gramsci, hanno sempre accettato di buon grado il ruolo del chierico (responsabilizzato e vezzeggiato) nel partito di Togliatti e Berlinguer. Ma la svolta di fine secolo non ha salvato né chiesa né egemonia, e di lì ha preso avvio un fuggi fuggi generale, il cui risvolto anche comico non può diminuire gli effetti devastanti prodotti in un paese che ancora vent’anni fa era guardato con invidia dagli studiosi marxisti di tutto il mondo.
Ciononostante, uno specifico contesto teorico marxiano esiste e resiste. L’idea che del capitalismo e delle sue tendenze possa darsi un’immagine scientifica, l’idea che la critica dell’economia politica alimenti saperi orientati a una trasformazione sociale di tipo radicale, costituiscono tale dimensione e la rendono legittima a dispetto di ogni retorica della fine della storia. Molti uomini e donne continuano a lavorare su questo terreno accidentato e, sia pure con evidenti limiti di confronto reciproco e di incidenza politica, gli studi proseguono. Si tratta spesso di nuove e sofisticate interpretazioni delle teorie elaborate ed esposte nel Capitale. Ma, dal sud del mondo, autorevoli filosofi ed economisti ci invitano a non dimenticare l’autore del Manifesto: il pensatore e l’uomo di partito che, con sintesi assolutamente originale, ha riscattato il realismo politico, ponendolo al servizio di prospettive storiche aperte.
Ebbene, Pólemos ha voluto documentare alcuni di questi filoni di ricerca, nella coscienza di non poter edulcorare l’ordine sparso in cui si presenta il lascito marxiano. Fortunatamente, è difficile parlare di Marx facendo pura filologia o mera astrazione, e ciò esclude almeno quell’effetto da museo delle cere, che anche la migliore storiografia filosofica non riesce spesso a evitare. Si è creduto inoltre opportuno inserire nella rivista una sezione dedicata a recensioni di opere italiane, uscite negli ultimi dieci anni e dedicate, più o meno esplicitamente, a interpretazioni generali dell’opera marxiana. Si vedrà che, alla fine, il problema è sempre quello: non restare chiusi nel labirinto dei rapporti fra cose, far emergere la relazione degli individui come il segreto dello specchio deformato e la base della sua possibile rottura.
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